Nel corso dei suoi quattrocentocinquant’anni di storia, il Collegio Ghislieri è passato attraverso mutamenti radicali del contesto sociale, prima ancora che accademico, e la sua capacità di perdurare nei secoli è coincisa con una straordinaria capacità di adattamento alle esigenze che via via si presentavano, talvolta precorrendo i tempi.
Senza questa premessa potrebbe risultare complicato capire perché uno dei periodi più complicati della storia del Collegio sia stata la fine del Diciannovesimo secolo, quando un’Italia ancora non completamente matura era percorsa da forti tensioni sociali; anni in cui il ruolo e l’identità degli studenti universitari si stava trasformando con grande rapidità. Erano anni in cui il Collegio era stato teatro di espliciti atti di rivolta che avevano causato scandalo nella comunità pavese e accademica, giungendo a far ventilare al Ministro dell’Istruzione l’ipotesi di liquidare il Collegio, convertendo lo status dei convittori in meri fruitori di una borsa di studio in denaro. Non sarebbe stata una novità: pochi anni prima, analogo destino era toccato ad altre istituzioni universitarie che garantivano vitto e alloggio.
Fra i più audaci sostenitori della necessità di cambiare drasticamente il senso e la struttura del Collegio, a fine Ottocento, ci sono gli studenti. È forse inevitabile ma può sorprendere, a guardare con gli occhi di oggi, la loro foga piuttosto brusca nell’abbracciare la posizione più ostile al Collegio: quella di pretendere che vitto e alloggio vengano sostituiti con soldi contanti, causando di fatto la chiusura del Collegio e riducendo l’essere ghisleriani al beneficiare di finanziamenti da parte del Ghislieri. Da un lato c’è un’evidente ripicca nei confronti di un Consiglio d’Amministrazione che ha utilizzato il pugno di ferro nei confronti degli studenti cosiddetti “radicali”, i nostalgici garibaldini o gli assertori di un primitivo socialismo. Dall’altro, tuttavia, la loro richiesta estrema – chiudere il Collegio per salvare i collegiali, in estrema sintesi – è spia di un desiderio di modernità, la presa di coscienza che nel nuovo secolo incombente, il Novecento, non si può entrare prigionieri delle abitudini e dei riti del vecchio.
Gli studenti del Ghislieri pubblicano una memoria in favore della chiusura del Collegio già nel 1879. Una successiva viene pubblicata nel 1885 e una terza ancora, forse la più interessante, nel 1890 (tanta frequenza non deve sorprendere, considerando la brevità del ciclo delle generazioni universitarie). Quest’ultima è un fascicoletto di dieci pagine, di cui una copia è custodita negli archivi della Biblioteca del Ghislieri. “Già da alcuni anni il Collegio”, esordiscono gli studenti di fine Ottocento, “vive di una vita anormale per i continui attriti tra Amministrazione e Rettore, tra Rettore e Alunni”. Individuano “la causa vera e prima di tutti questi guai nel sistema sbagliato contro cui combattiamo”, ossia l’obbligo che i ghisleriani risiedano in Collegio, “e del quale cerchiamo una pronta riforma”.
Sono consapevoli che la principale obiezione alla conversione dei convittori in borsisti sta nella volontà originaria di Pio V, che nel 1567 fondò il Ghislieri per offrire vitto e alloggio a universitari poveri ma meritevoli. “Ma anzitutto la intenzione del Pontefice Pio V Ghislieri”, controbattono gli studenti, “non era tanto di fondare il Convitto, quanto di venire in aiuto agli studiosi poveri, cosa che si può benissimo raggiungere anche colle Borse”.
Non mancano di dar prova di una certa mentalità imprenditoriale, argomentando che “colla conversione del Collegio in Borse si realizzerebbe una notevole economia e si potrebbe quindi aumentare il numero dei posti”. Calcolano in trecentomila lire annue le rendite del Collegio; sottratte le spese d’amministrazione e gli emolumenti da devolversi all’Università, sottratte anche altre cinquantamila lire “per tener calcolo della diminuzione di rendita causata dall’attuale crisi agraria”, rimangono comunque centocinquantamila lire: abbastanza per “beneficiare centocinquanta giovani, concedendo a ciascuno un annuo assegno di lire mille, mentre oggi poco più di una ottantina godono del beneficio”, ovvero vivono presso il Collegio o “ricevono pensioni per ultimare in altra Università o Politecnico il corso di Ingegneria”, all’epoca assente a Pavia.
Prevengono anche l’obiezione che un aumento dei beneficiari “equivarrebbe ad aprire le porte agli agiati e ai mediocri”, con la semplice e ovvia constatazione che “la sempre crescente popolazione della Lombardia può ben fornire un bastevole contingente di giovani disagiati e studiosi”. Se il Collegio venisse sostituito da borse di studio, argomentano, non solo si risparmierebbero le spese vive e gli stipendi degli impiegati ma, pianificano, si potrebbe “ricavar profitto dal Palazzo Collegio”, affittandolo o vendendolo per rimpinguare le casse.
Più della questione economica sembra però infiammarli l’innovazione didattica. Scrivono espressamente che il convitto, così com’è gestito a fine Ottocento, “un anacronismo e nonché rispondere allo scopo educativo, riesce al contrario risultato”. Lamentano una perdita d’identità nel rapportarsi al mondo esterno, poiché “essendosi tolti anche i distintivi esteriori un tempo imposti agli alunni, ormai non è veramente se non un dormitorio od un albergo regolato bensì da certe norme, che lo accostano ad una caserma o ad un giardino d’infanzia”; quanto all’eccellenza, li tormenta il sospetto che “gli alunni ad esso appartenenti facciano agli esami buona prova” solo in quanto devono “avere certi requisiti d’ingegno e di cultura per godere del beneficio”, e ne concludono avventatamente che “anche fuori del Collegio noi conseguiremmo un eguale risultato”. Pare irritarli oltremodo il fatto che a fine Ottocento il Collegio, per tagliare spese, abbia licenziato “i ripetitori”, ossia gli attuali tutor, e abbia cancellato le lezioni di scherma. Concedono che “un vero vantaggio offerto dal convitto, è l’uso della biblioteca annessa all’istituto: ma questa potrebbe sempre conservarsi accessibile agli studenti che godono un posto Ghislieri”, ossia una borsa di studio senza più vitto e alloggio.
Le pagine dell’opuscoletto sono fresche, sfacciate, ingegnose. Cedono alla retorica solo sul finale (“Noi non siamo il serpente della favola morsicatore del villano che lo raccolse”, “ci inchiniamo con animo grato alla secolare istituzione che rende possibile ed aiuta i nostri studi”, “la amiamo noi più di tutti, ma il nostro è amore sollecito e previdente di figli, non inerte e cieco feticismo di pedanti”) dove comunque spicca il desiderio di vedere il Collegio di fine Ottocento “svilupparsi dalla forma rachitica in cui è costretto e fiorire di più prospera vita”. È un desiderio sincero; non solo, è un desiderio destinato a realizzarsi in una forma che gli studenti, nella loro memoria polemica, avevano lambito senza coglierla.
A riprova infatti dell’eventualità che si potesse fare uno strappo (anche radicale) alla lettera delle intenzioni di Pio V, gli studenti avevano portato l’esempio dell’ampiamento del bacino geografico da cui il Collegio poteva trarre alunni: inizialmente destinato solo a studenti del pavese, del vigevanese, del tortonese, dell’alessandrino (e ovviamente di Bosco Marengo, paese natale di Pio V), il Ghislieri era diventato accessibile a studenti da tutta la Lombardia.Con l’arrivo del Novecento, il Ghislieri cambierà identità grazie alla nazionalizzazione, aprendosi agli studenti migliori di tutta Italia e dando nuova linfa all’opportunità di vivere in Collegio: non solo per l’ovvia comodità di venire ospitati a Pavia, di fianco all’Università, ma soprattutto per la creazione di una comunità di Alunni di diversa origine ma accomunati dall’eccellenza, un vero valore aggiunto rispetto alla mera fruizione di una borsa di studio.
Grazie a un accordo con Google Books, sta venendo digitalizzato il patrimonio d’archivio della Biblioteca del Collegio Ghislieri, da cui deriva questo opuscolo firmato “Gli Alunni del R. Collegio Ghislieri” e intitolato La riforma del Collegio Ghislieri. Memoria compilata dagli alunni (Marelli, 1890), fornito a Ghislieri.it dal dott. Alessandro Maranesi, bibliotecario del Collegio. Altro materiale riguardo a questo periodo cruciale della storia collegiale può essere rinvenuto nel capitolo Ottocento lombardo scritto da Gianmarco Gaspari nel volume Ghislieri 450. Un laboratorio d’intelligenze (Einaudi, 2017), a cura di Arianna Arisi Rota; e nel corposo saggio di Alberto Magnani, Contestazione studentesca e impegno politico nell’ambiente universitario alla fine dell’Ottocento. Il caso di Pavia, in “Rassegna storica del Risorgimento”, 1994. Precedenti puntate di “Letture ghisleriane” sono state dedicate alla Liberazione del Collegio dai soldati tedeschi nel 1945 e alle prime conseguenze degli episodi di rivolta in Collegio a fine Ottocento.