Da un lato Cesare Lombroso, l’alienista autore di Genio e follia intimamente persuaso che il genio pagasse le proprie qualità con delle anomalie, la propria eccezionalità con una sotterranea menomazione psichica: lo rafforzerà in questa convinzione la trasferta a Jàsnaja Poljàna, dove incontrerà un Tolstoj a suo dire affetto da “psicosi epilettoide del genio”. Dall’altro Carlo Dossi, lo stravagante scrittore di Zenevredo che definì il proprio stesso stile capriccioso e inconsulto come uno dei punti interrogativi rovesciati di cui abbondava a inizio delle frasi, e sé stesso “uno scrittore che fa salti mortali sullo stesso posto”. Su questi due figure gigantesche ma marginali rispetto al panorama della cultura italiana di fine Ottocento si impernia Ombre nella mente, il saggio appena edito da Bollati Boringhieri e scritto a quattro mani da due nostri Alunni: la studiosa di linguistica Maria Antonietta Grignani e lo storico della medicina Paolo Mazzarello.
Pavia è il punto di contatto fra i due. Lombroso ci arrivò diciassettenne, attratto anche dalla presenza di Paolo Mantegazza il quale, poco meno giovane di lui, già si era fatto un nome coi suoi primi studi in campo clinico; lì tentò invano di affermarsi come docente, patendo di fatto lo scetticismo di Luigi Porta nei confronti delle sue teorie. Anche Dossi studiò a Pavia (non in Ghislieri: ma nelle Note azzurre ricorda che Don Sisto Pisani, fratello di suo nonno, “aveva pure casa propria a Pavia sulla piazza del Collegio Ghislieri”) e volentieri abbandonava le lezioni umanistiche per sbirciare quelle di Lombroso, intento magari a imbastire esperimenti sul campo (talvolta fallimentari) per confermare le proprie ipotesi utilizzando il corpo studentesco per tentativi e misurazioni. Lombroso cercava di contestare l’ipotesi che i fenomeni di “cretinesimo” derivassero da fattori sociali quali la mancanza d’istruzione spingendosi ad argomentazioni paradossali e provocatorie, che devono avergli alienato non poche simpatie: “È certo”, scriveva, “che Pavia, che pure abonda di cretini, non manca d’istruzione, ne pe ’l volgo, né per la classe eletta”. Dossi dal proprio canto gli dava ragione (“a Pavia ogni 1000 un pazzo”, segna nelle Note azzurre) ma individuava una particolare concentrazione di follia fra i docenti, da quelli che distribuivano voti in base al vestiario a quelli che davano in pubbliche escandescenze; e, dovendo fare il nome di qualche esemplare di professore squilibrato, non manca di citare Lombroso stesso.
Eppure in Lombroso – non si sa se nella sua follia o nel suo interesse per essa – Dossi doveva vedere qualcosa di sé stesso, scisso e malato come amava descriversi. Partorito settimino, malato d’itterizia, dotato di testa spropositatamente grossa rispetto al corpo, Dossi costituiva un candidato ideale a paziente di Lombroso; tanto più che subì ben presto un esaurimento psichico accompagnato da “momenti di assenze cerebrali” e “intervalli di spirituale impotenza”, in cui si coglieva “ben lieve differenza fra lui e un cretino”. Né andava meglio in famiglia: Dossi enumera un nonno dotato di “volubilità di carattere”, una zia con “scrupoli romantici e religiosi”, un cugino “ora all’ospedale dei pazzi di Pavia”. Non aiuta una voce popolare secondo cui “I Pisan j en pu matt che san”.
Pisani era l’altro cognome del Dossi, il cui nome completo era Carlo Alberto Pisani Dossi. Quest’accidente anagrafico fu un’ottima leva per lo sviluppo del doppio, eternato nel titolo della Vita di Alberto Pisani scritta da C.D. (1870); una personalità scissa ben manifesta già dalla sua grafia duplice, una che sembrava “della leggiera penna di una fanciulla”, “gracile e limpida”, l’altra dotata di caratteri “zappati dalle corte e tabaccose dita di un grosso curato”. In sé Dossi censisce tutta “una popolazione di Ii, uno diverso dall’altro”.
Il saggio di Grignani e Mazzarello – anche facendo ricorso a materiali non presenti nell’archivio epistolare del Lombroso Project – ricostruisce i rapporti di simpatia e curiosità germogliati fra Lombroso e Dossi non solo a partire dalle lettere che si sono scambiati ma anche cercando di individuare l’humus comune su cui ha potuto nascere la loro reciprocità. Dossi, che lamentava la propria sofferenza continua nello scrivere e la perenne incapacità di portare a termine i grandi progetti che delineava, poteva riconoscere non senza compiacimento parte dei propri tratti nel Genio e follia dell’alienista. E Lombroso sicuramente non faticava a riconoscere in Dossi qualcosa degli psicotipi eccentrici: “Individui che hanno una tendenza continua a movimenti energici e disordinati, ad azioni bizzarre e contradittorie, incapaci di resistere all’impeto delle lor passioni; tormentatori di sé e degli altri – eccessivisti in politica ed in religione; scrittori facili, ma paradossali; di un’attività febbrile, seguita da grande depressione; con tendenza alla venere, agli alcolici, al tabacco; facili alle antipatie ed agli odj senza causa; vanitosi, iracondi, pessimi in famiglia, buoni fuori di casa e fuori d’ufficio”. Lombroso suggeriva a Dossi di leggere il diario creativo tenuto dai suoi pazienti nel manicomio di Pesaro, “ove scrivono gli alienati con versi degni di Dante”; Dossi ricambiava con tentativi di diagrammi statistici relativi alle proprie funzioni psicofisiche, che saranno “l’embrione di un’autostatìstica, o per dirla all’italica, di un’intima ragioneria del cèrebro”; è ciò che passerà poi sotto il titolo, immancabilmente accentato, di Autodiàgnosi.
Ed è straordinario vedere oggi ricostruita con tanta attenzione l’influenza vicendevole che esercitano l’uno sull’altro due emarginati della cultura dell’epoca, riconoscendosi in fin dei conti figure speculari: l’alienista entusiasta fino allo squilibrio e l’autore scapigliato lucidissimo nell’analizzarsi e nel concludere che “oggi in cui i medici fanno da letterati, è permesso, pare, a un letterato di fare un po’ il medico”.
Al saggio dei due autori ghisleriani, Paolo Di Stefano ha dedicato un approfondito articolo sul Corriere della Sera e Roberto Carnero una recensione su Avvenire.
Maria Antonietta Grignani, ghisleriana dal 1966, è stata Professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea, di Storia della lingua italiana e di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Pavia, dove ha diretto il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei. Fra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo Retoriche pirandelliane (Liguori, 1993), Montale e il canone poetico del Novecento (con Romano Luperini, Laterza, 1998), La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento (Interlinea, 2002), Novecento plurale. Scrittori e lingua (Liguori, 2007) e Una mappa cangiante. Studi su lingua e stile di autori italiani contemporanei (Pacini, 2017).
Paolo Mazzarello, ghisleriano dal 1974, è Professore ordinario di Storia della Medicina presso l’Università degli Studi di Pavia. Fra i suoi libri, ricordiamo L’inferno sulla vetta(Bompiani, 2019), Il Nobel dimenticato. La vita e la scienza di Camillo Golgi (Bollati Boringhieri, 2006, ristampato nel 2019 e tradotto in inglese nel 2010 per la Oxford University Press), Il professore e la cantante. La grande storia d’amore di Alessandro Volta(Bollati Boringhieri, 2006, ristampato da Bompiani nel 2020), Il morbo di Violetta. Carlo Forlanini e la prima vittoria sulla tubercolosi (Fiorina, 2018) e L’elefante di Napoleone. Un animale che voleva essere libero(Bompiani, 2017). Una selezione dei suoi saggi accademici è disponibile online. Dirige il Sistema Museale di Ateneo di Pavia. È membro dell’Istituto Lombardo e dell’Accademia Europaea, e consigliere del Comitato Direttivo dell’Associazione Alunni del Collegio Ghislieri.