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Un ricordo ghisleriano del 25 aprile

A settantacinque anni dalla Liberazione, un nostro Alunno racconta la vigilia di quel giorno decisivo dal proprio punto di vista di tredicenne a Cannobio, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Si tratta del prof. Ettore Brissa, professore emerito presso l’università di Heidelberg, ghisleriano dal 1950 (nonché allievo del filosofo Giulio Preti), insignito nel 2012 della Stauffer-Medaille del Land Baden-Wüttenburg per la promozione delle relazioni culturali italo-tedesche. Ecco le sue parole; lo ringraziamo per avere scelto di condividerle con noi.

Un qualcosa si avvertiva nell’aria, quel martedì 24 aprile del 1945.

Molte le assenze, così nella scolaresca come fra gli insegnanti della Scuola media “Sandro Pugnetti”, sorta a Cannobio sul finire del ’43, su iniziativa di Don Piero Giacometti e sistemata nella sede, di recente costruzione, dell’Oratorio che si affaccia sullo slargo di Piazza Santa Marta.

La campanella che indicava la fine delle lezioni del mattino suonò prima del previsto. Lo studente Ettore Brissa, attardatosi a sistemare libri e quaderni nella cartella, credendosi solo nell’aula della Terza, raggiunta la grande lavagna nera, si soffermò per liberarla dalle tracce della lezione di matematica (il che non era suo compito).

Come commiato, con il gessetto, lo studente tracciò sulla lavagna un bel “W” rovesciato e la scritta “il Duce”. Il gesto non era per altro sfuggito alla bidella della scuola, fervida ammiratrice del suddetto duce, la quale si presentò alla porta della casa di Ettore Brissa con delle rimostranze, minacciando di fare denuncia di quella scritta “a morte il Duce” al comando GNR del paese.

Lo studente Ettore Brissa fece presente alla bidella che il “W” rovesciato poteva al massimo essere interpretato come una manifestazione di dissenso, non certamente come un “a morte!”.

Ma il padre di Ettore Brissa, comm. dott. Antonio Brissa, l’allora presidente del CLN clandestino di Cannobio, seppe trovare le espressioni giuste per chiudere la controversia: “Gentile Signora, Lei agisca secondo coscienza, ma tenga presente che, con oggi, il vento gira”.

Passata neppure un’ora da queste parole – da definirsi, senza esagerazione, profetiche – nel primo pomeriggio del martedì 24 aprile il Borgo di Cannobio visse la sua seconda Liberazione.  Per quanto mi è dato ricordare – sono passati dall’evento 75 anni – senza che ci siano stati scontri a fuoco o fatti di sangue (un aspetto che, nella retrospettiva, induce a inserire l’evento nel capitolo della cosiddetta “diplomazia partigiana”).

Quel giorno, 24 aprile del 1945, il tempo rimase sul bello costante, diversamente da quanto avvenuto, sette mesi prima, nella giornata della discesa su Cannobio dei partigiani della “Piave” Allora, era il sabato 2 settembre ’44. Un violento acquazzone aveva colto di sorpresa sulla via del ritorno, la scorta della “Perotti” che, dopo la loro resa, aveva accompagnato sino al valico di S.Bartolomeo-Valmara i soldati tedeschi di stanza all’Albergo “Cannobio- Savoia”. Due partigiani si erano riparati, trovando accoglienza, nella casa della Via Umberto e ne era nata un’amicizia, destinata a durare nel dopoguerra.

Finito il (modesto) pranzo lo studente Ettore Brissa, sceso sulla via Umberto, la trovò deserta. Nessun segno di giubilo e di festa, come era accaduto sette mesi più avanti. Forse non era giunta nelle case la nuova della liberazione del Borgo dal nazifascismo?

Era forse ancora in vigore il coprifuoco? Più probabile mi sembra l’ipotesi di una certa diffidenza di chi aveva ben presenti gli accadimenti del settembre ’44, fino allo sbarco dal lago dei miliziani fascisti nella mattina del sabato 9: l’evento che doveva fare di Cannobio “la spina nel fianco della Repubblica ossolana” (Giorgio Bocca).

Giunto all’altezza della fontana dei “Pironi”, Ettore Brissa vide un armato percorrere lentamente la salita della “Gabella”, con un pesante fucile mitragliatore sulla bandoliera. Era un partigiano della brigata “Perotti”, proveniva dall’Albergo sul lungolago, e si dirigeva verso la Piazza S. Ambrogio. Era una conoscenza dello studente dai giorni del settembre col nome di battaglia “G”. Dopo aver ripreso il fiato, G si rivolse al giovane studente con le parole: “Vieni Ettore, andiamo insieme a prendere la caserma della Milizia”.

Questo invito avrebbe dovuto far riflettere anche un tredicenne, quale era lo studente, sulle incognite della situazione. Si trattava – niente meno, niente più – di una sola persona armata (più simile, per dire la verità a Sancho Panza che non a Don Chisciotte) che si accingeva a “prendere” la sede fortificata della GNR che si affacciava sullo slargo di Sant’Ambrogio, anch’esso, come i due ebbero modo di vedere, in quel frangente, deserto.

La scena che segue ha, a distanza di tre quarti di secolo, un qualcosa di irreale. Una volta giunti davanti al portone blindato della caserma, il partigiano “G” suonò il campanello, si aprì uno sportello, seguì un breve scambio di parole, a séguito del quale, la resa della guarnigione fascista era cosa fatta.

Non si esclude che lo studente Ettore Brissa abbia intuito, nei minuti che lo precedettero come in quelli lo seguirono, che l’evento della presa della caserma cannobiese era lo sbocco di trattative telefoniche avvenute nel corso della mattinata fra i comandi della “Piave” e i militi della GNR, abbandonati alla loro sorte a séguito della defezione di chi li comandava, ossia il capitano Nisi, ben noto quale criminale di guerra, fuggito verso la Svizzera su una imbarcazione nelle prime ore del mattino del 24 aprile 1945.

PS:

Ci si potrebbe chiedere con quale sentimento lo studente Ettore Brissa abbia fatto ritorno nella casa sulla Via Umberto che lo ha ospitato, insieme alla famiglia, dal mese di settembre del ’43 all’estate del ’45. Il tredicenne era già arrivato alla conclusione che non era proprio il caso di menare vanto del suo operato in quelle ore pomeridiane del giorno della liberazione.

Il padre che, informato degli avvenimenti, era stato in pensiero per la sua assenza, gli fece una bella reprimenda. Era per altro impegnato in un colloquio con il Carletto Ferrari, meglio noto come “Much”, che aveva assunto “pro tempore” il compito della salvaguardia dell’ordine nel Borgo. Terminato il quale, il capo partigiano diede assicurazione che in Cannobio non ci sarebbero state vendette né atti di rivalsa per quanto accaduto durante la guerra civile.

(Ettore Brissa)