“Se possedessimo un albero genealogico perfetto dell’umanità, un ordinamento genealogico delle razze dell’uomo permetterebbe la miglior classificazione delle lingue che oggi si parlano nel mondo; e se tutte le lingue estinte e i dialetti intermedi e quelli che cambiano nettamente potessero essere inclusi, quest’ordinamento sarebbe il migliore possibile”: così scriveva Charles Darwin ne L’origine delle specie, nel 1859. Quasi un secolo e mezzo dopo Luigi Luca Cavalli Sforza, il celebre genetista nostro Alunno, ritornava su questo brano “con un misto di emozione, contentezza e anche un po’ di imbarazzo” di fronte a questa congettura che costituisce una sorta di profezia dei risultati propria stessa ricerca, “l’osservazione della grande somiglianza tra l’albero genetico e quello delle famiglie linguistiche”.
Scrive Cavalli Sforza in Chi siamo. La storia della diversità umana– un caposaldo della divulgazione scientifica, pubblicato da Mondadori nel 1993 e poi raccolto nei Meridiani assieme a La scienza della felicità, in collaborazione col figlio Francesco – che la somiglianza fra evoluzione linguistica ed evoluzione genetica deriva dal fatto che “nel corso dell’espansione dell’uomo moderno, nuove regioni e nuovi continenti sono stati occupati da gruppi che si sono separati dalle loro comunità di origine e si sono insediati in nuove località”. Dopo la nascita di altri frammenti, che a loro volta si sono spinti verso luoghi più distanti, continua Cavalli Sforza, “attraverso questa serie di scissioni e spostamenti a catena si sono raggiunte regioni tanto lontane che è stato difficile o impossibile mantenere i rapporti con i luoghi e le popolazioni di origine”. A quel punto l’isolamento ha determinato due fenomeni: “la formazione di differenze genetiche e la formazione di differenze linguistiche. Ambedue i fenomeni hanno seguito strade proprie e hanno avuto una propria dinamica, ma la storia delle separazioni, che sono la causa della differenziazione, è comune a entrambi. La storia che si ricostruisce attraverso le lingue, come attraverso i geni, è proprio quella delle separazioni, ed è quindi inevitabilmente la stessa”.
Si tratta di un esempio preclaro del procedimento della scienza (e del suo fascino) nel ricostruire ciò che non può essere riprodotto in laboratorio. “Il profano, il cosiddetto uomo della strada, spesso chiede alla scienza delle certezze”, scrive Cavalli Sforza. “Ma lo scienziato dedica buona parte delle sue energie a sollevare dubbi e a cambiare le proprie teorie se è necessario. Ci sono già fin troppe religioni e ideologie a conclamare la ‘verità’. Per capire come procede la scienza e a che grado di sicurezza consente di giungere è utile ricordarsi che ci sono due tipi di lavoro scientifico profondamente diversi. Si può sperimentare, o soltanto osservare”.
La scienza in cui è possibile solo l’osservazione, senza speranza di sperimentazione, “è la storia, la ricostruzione di fatti avvenuti in passato. Non si può ripetere a volontà, non possiamo fare un esperimento in cui rilanciamo l’evoluzione delle stelle, degli organismi viventi o dell’umanità, quest’ultima per vedere se gli uomini vengono fuori di nuovo uguali o magari un po’ diversi da come sono ora”. Né le teorie né la simulazione computerizzata possono ricalcare una storia naturale “tropo complessa” e dotata di “un grado di dettaglio che non potremo mai arrivare a conoscere o imitare”.
Tuttavia, per essere convincenti, c’è bisogno di “sforzarci di ottenere quante più prove sia possibile”. Cavalli Sforza argomenta: “Le scienze storiche hanno una maggiore incertezza di altre discipline e l’unico modo di superarla è quello di osservare gli stessi fenomeni da tutti i possibili punti di vista. Questo è uno dei motivi per cui io cerco di studiare l’evoluzione umana, ad esempio, non solo sul piano biologico, ma anche su quello archeologico, culturale, linguistico, eccetera. L’unico modo di controllare le nostre ipotesi e teorie scientifiche è di riprovare da punti di vista diversi, compiere sempre nuove osservazioni per controllare se otteniamo i risultati attesi in base alla nostra teoria, e considerarci soddisfatti solo se essa effettivamente ci serve a predire il risultato di tutte le osservazioni attendibili”.
Oltre a dover guardarsi dalla richiesta popolare, per così dire, di verità assolute, la scienza deve conservare un certo sospetto nei confronti dei tentativi di traslare fuori contesto i propri concetti. È per questo, spiega Cavalli Sforza, che “Darwin non appoggiò mai il darwinismo sociale. È vero che nei rapporti tra specie diverse che sono in rapporto di predatore e preda, oppure di parassita e ospite, uno dei due – di solito la preda o l’ospite – soccombe, magari in modo sanguinoso. Ma il darwinismo sociale è piuttosto l’estensione di questo rapporto di sopraffazione all’interno di una stessa specie. Vi è certamente concorrenza e lotta anche tra individui della stessa specie, per ragioni di sopravvivenza come di riproduzione, i primi due imperativi biologici. Ma nelle specie sociali la vita sarebbe impossibile se ambedue questi imperativi non fossero moderati dall’imperativo sociale, che tende a ridurre l’impatto negativo delle interazioni tra individui della stessa specie, e ad aumentare quello positivo.”
L’imperativo sociale resta per Cavalli Sforza sempre sotteso all’attività scientifica. Lo dimostra il caso dell’eugenica, come da dicitura coniata da Francis Galton, cugino di Darwin e pioniere della genetica umana. “Sarebbe bello avere razze di camerieri o cameriere perfette, di segretari e segretarie, soldati, cortigiane e così via?”, si domanda Cavalli Sforza, rispondendo: “L’idea può piacere un tiranno – alcuni sovrani infatti hanno tentato di fare dell’eugenica positiva: si dice che Federico II il Grande sposasse granatieri di Pomerania a belle ragazze – ma è profondamente contraria alla dignità umana, e anche alle necessità umane. I risultati dei singoli incroci sono inoltre sempre incerti”. A riprova, Cavalli Sforza cita il celebre episodio di Isadora Duncan, la ballerina americana che propose a George Bernard Shaw di darle dei figli così che avessero l’intelligenza di lui e la bellezza di lei. Shaw rifiutò sulla base del rischio concreto che prendessero invece l’intelligenza da lei e la bellezza da lui.
Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018) è diventato Alunno del Collegio Ghislieri nel 1939. È celebre per avere gettato le basi della genetica delle popolazioni, oltre che per avere confutato le teorie sul concetto di razza umana. A Cambridge ha condotto ricerca sotto la guida del grande genetista Ronald A. Fischer, tornando poi negli anni Cinquanta in Italia, assumendo la direzione dell’Istituto di Genetica dell’Università di Pavia. Nel 1971 si è trasferito a Stanford, in California, dove, coniugando genetica e linguistica, ha progressivamente ricostruito una mappa storica delle migrazioni umane. Fra le sue innumerevoli pubblicazioni, ricordiamo Geni, popoli e lingue (Adelphi, 1996), L’evoluzione della cultura (Codice, 2016) e, con l’archeologo Albert J. Ammerman, La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa (Bollati Boringhieri, 2016).