Cent’anni fa in Europa c’erano solo trentacinque musei; adesso sono diciottomila. Per quanto questa statistica possa apparire trionfale, oggi i musei (e in particolare quelli italiani, spesso di stampo solidamente ottocentesco) sono a uno snodo decisivo della propria storia, stretti da un lato da un progresso tecnologico che consente di riprodurre la percezione di oggetti e ambienti, dall’altro da una crisi di coscienza culturale che rilegge criticamente il passato talora per cancellarlo, talaltra per esigere azioni riparatrici di torti commessi secoli addietro. Ne hanno parlato al Collegio Ghislieri Evelina Christillin, Presidente della Fondazione Museo delle Antichità Egizie, e il nostro Alunno Christian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino.
La presentazione de Le memorie del futuro. Musei e ricerca, scritto a quattro mani per Einaudi, è stata occasione di un confronto a tutto tondo su senso e destino dell’attività museale nel ventunesimo secolo. “A torto il mondo museale viene considerato statico e polveroso”, ha esordito Evelina Christillin, “ma il tentativo di trasformare i musei in pezzi di comunità vitale si scontra con un atteggiamento diffuso, cui contribuisce anche il ministero quando attribuisce un ranking ai musei sulla sola base dei biglietti venduti. Si tratta di un retaggio testimoniato anche dalla T aggiunta in coda all’acronimo del Mibact: in Italia spesso si equipara la cultura al turismo. Noi vorremmo invece avere musei in cui non si paga il biglietto, come in Gran Bretagna; la creazione di semantiche diverse per spiegare i fenomeni anziché distruggerli, come accade con la cancel culture; e un approccio che sia simultaneamente da imprenditori e scienziati, come abbiamo cercato di fare negli ultimi anni al Museo Egizio”.
All’inizio del suo mandato, ha raccontato, il Museo Egizio non aveva curatori. Con l’avvento di Christian Greco i curatori sono diventati ventidue: un forte costo iniziale, senza ritorno immediato dato che lo studio richiede tempo, ma che ha dato frutti a lungo termine, con la possibilità di evitare di importare mostre blockbuster ma di diventare produttori di mostre da esportare nei cinque continenti. L’attività di ricerca di cui il Museo Egizio si è reso fautore è culminata nella creazione di una rivista di fascia A open access, RIME, che accoglie studi che oltrepassa i confini del museo stesso e del suo patrimonio. Inoltre l’archivio del Museo Egizio – dapprima assente in quanto precedentemente inglobato nell’Archivio di Stato di Torino – è stato riacquisito e il suo immenso materiale messo a disposizione del pubblico con licenza creative commons, senza diritti.
Secondo Evelina Christillin, fra i visitatori di un museo “ormai non c’è più l’idea di vedere un oggetto per comprenderne senso e contesto, ma turismo di massa in cui conta la propria presenza da protagonisti vicino all’oggetto. La ricostruzione tecnologica (come quella della nostra mostra virtuale Archeologia invisibile) può invece aiutare maggiormente la ricostruzione della storia e quindi la comprensione, anche in assenza dell’originale. Sono storia e contesto a dare senso a un oggetto, di per sé indistinguibile da una copia perfetta”.
“La memoria consiste nella scoperta di cosa sia il patrimonio”, ha confermato Christian Greco. “Noi vorremmo superare la tradizionale dicotomia tutela/valorizzazione, puntando piuttosto sulla cura, che passa attraverso la conoscenza. Il pericolo maggiore per il patrimonio non è il deterioramento materiale, ma essere dimenticato: per questo non bisogna staccare la memoria dal patrimonio”.
Una differenza sostanziale sta nel fatto, ha spiegato, che “per gli italiani il museo sono le opere, mentre per gli stranieri è l’infrastruttura. In questa maniera rischiamo di perdere di vista che la cultura materiale non è solo l’oggetto di per sé ma l’intero contesto. I nostri musei rispettano ancora un’impronta positivistica, tassonomica, ma non parlano più. Per questo bisogna utilizzare l’innovazione – senza innovazione non si produce memoria – per pensare a sistemi di comunicazione diversi, rompendo gli schemi. Per quel che ad esempio concerne la questione delle restituzioni delle opere ai luoghi di provenienza, bisogna sperimentare tentativi di condivisione del patrimonio (magari anche semplicemente su base cronologica) in luogo di liti tribunalizie per stabilire a chi appartenga il patrimonio; e ci vorrebbe un Ministero della cultura europeo, per depotenziare la rivalità sull’appartenenza. Allo stesso modo, nel tempo della condivisione delle immagini, bisogna che i musei italiani superino l’esigenza di richiedere il copyright per la riproduzione delle opere che custodiscono”.
Il futuro dei musei, per Christian Greco, passa attraverso ricerca, formazione e innovazione: “Non esistono musei senza ricerca, e in ciò il Ministero della Cultura ha fallito nei propri obiettivi: Spadolini lo aveva fondato come ministero scientifico, ma si è ridotto a fungere da custode quando invece i musei sono i luoghi deputati non a custodire bensì a costruire attivamente la memoria. Bisogna inoltre superare il concetto della periodica deportazione degli studenti dei musei, usando invece i musei per formare gli studenti, anche grazie a un’apertura formativa dei musei che non sia in competizione ma in collaborazione con le università. Infine, all’alba del metaverso, bisogna interrogarsi sulla sua sostenibilità e sull’effettiva importanza della materialità. È il momento di usare nuove tecnologie per creare nuove connessioni”.
Persuaso che “non la bellezza ma la conoscenza salverà il mondo”, Christian Greco auspica per i musei una “ricerca libera, sia disciplinare sia multidisciplinare. I musei non devono tralasciare la ricerca sociologica: non si può comunicare la memoria se non si conosce la società a cui comunicarla; altrimenti avere soltanto dei social media manager è inutile. La ricerca deve vedere nella collezione museale un punto di arrivo e di partenza ma mai un limite: non dev’essere soltanto ricerca applicata. E deve poter fruire di finanziamenti, quando invece al momento i musei italiani possono paradossalmente beneficiare di fondi europei per la ricerca ma non di quelli italiani, destinati esclusivamente alle università”.
“In Italia parliamo in maniera molto retorica del nostro patrimonio culturale”, ha concluso, “ma quanto curiamo davvero la memoria? Siamo abituati a elevare gli oggetti a opere d’arte ma, così facendo, spesso i musei mancano di trasmettere il contesto che dà senso a quell’oggetto. Inoltre ci vorrebbe un atto di coraggio e di trasparenza nel dire che il museo non è solo il luogo della conservazione ma anche della distruzione: l’archeologo distrugge, decostruisce, estrae da un contesto, e quest’operazione è finalizzata alla ricostruzione conservativa”.
Il video integrale dell’evento è disponibile sul canale YouTube del Collegio Ghislieri.