Il suicidio misterioso di Pier delle Vigne e un’ispirazione ghisleriana – Intervista a Gabriele Dadati

Nella pietra e nel sangue - Baldini+Castoldi

C’è una forte connessione ghisleriana alla base dell’ultimo romanzo di Gabriele Dadati, il nostro Alunno autore di Nella pietra e nel sangue (Baldini+Castoldi, 2020). La rivela Dadati stesso nella nota in fondo al volume: “Questo romanzo”, scrive, “non esisterebbe se un giorno, nel 2013, l’amico Luca Fiorentini non avesse condiviso con me alcune ricerche che andava compiendo sugli antichi commenti danteschi”, in particolare quelli relativi al misterioso suicidio di Pier delle Vigne, attorno a cui ruota il romanzo, suddiviso su due piani fra la narrazione del passato alla corte di Federico II di Svevia e il ritratto del presente, attraverso la figura immaginaria di un giovane ricercatore per certi versi ossessionato dalla necessità di far chiarezza sulla morte (autoindotta o inflitta?) del logoteta dell’Imperatore.

Ebbene Luca Fiorentini, piacentino come Dadati, anch’egli Alunno del Ghislieri e ricercatore di Letteratura Italiana presso l’Università “La Sapienza di Roma”, nel 2013 aveva pubblicato negli “Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici” l’articolo Il suicidio di Pier della Vigna. Variazioni narrative negli antichi commenti danteschi. “Molto di quanto si racconta in questo libro è vero”, scrive ancora Dadati nella nota al romanzo, “nella misura in cui lo è quello che possiamo conoscere della storia attraverso lo studio dei documenti. Chi volesse saperne di più può leggere l’articolo di Fiorentini su questi argomenti e trovare lì ulteriori indicazioni bibliografiche. La mia copia reca a penna, sulla prima pagina, questa aggiunta: ‘La storia c’è. Ora serve un bravo narratore!’”.

Raggiunto da Ghislieri.it, Dadati ha confermato che, senza lo spunto dato dall’amico ghisleriano, Nella pietra e nel sangue non sarebbe nato. “Quella che intercorre tra Luca e me”, dichiara, “è il tipo di amicizia che in generale si definisce ‘intellettuale’. Il che vuol dire che oltre al solido rapporto affettivo si sovrappone e si intreccia un ulteriore rapporto fatto di scambi proficui su quello che l’uno o l’altro scopre, o crede di scoprire, in ambito letterario e artistico in genere. Così, quando lui nel 2013 si affacciò all’orrore di quello che definì ‘un incredibile rimosso della coscienza occidentale’, e cioè intercettò una lunga tradizione di rituali di pena tardo medievali di cui si parla pochissimo o per niente, mi chiamò e ne parlammo a lungo. O meglio: parlò lui, io ascoltai, e alla fine mi disse: ‘Ti interessa? Se è così, ti giro un po’ di materiali bibliografici che ho messo insieme’. Mi interessava. Perché, in un’amicizia di questo tipo, idee e scoperte sono come qualcosa di buono che l’uno ha cucinato e offre all’altro. Sono una forma di premura, una forma di amore”.

Non è peregrino immaginare che questa scintilla sia stata decisiva in senso ancora più vasto sulla produzione di Dadati, romanziere giovane ma già prolifico. Nel 2013, all’epoca di questo confronto con Fiorentini, Dadati aveva appena alle spalle un gioiello narrativo – Piccolo testamento (Laurana, 2011), sulla perdita di un amico intellettuale – ed era impegnato in prima persona nel progetto della casa editrice Laurana; era insomma tutto concentrato sulla narrazione della contemporaneità. Dopo il 2013, tuttavia, la sua produzione dimostra un crescente interesse per la storia: la curatela di un romanzo di Napoleone (Clisson ed Eugénie, Laurana, 2014), la stesura di un complesso romanzo su Canova (L’ultima notte di Antonio Canova, Baldini+Castoldi, 2018), e adesso il Pier delle Vigne di Nella pietra e nel sangue.

“La curatela e la traduzione del romanzetto giovanile di Napoleone”, spiega Dadati, “sono effetti collaterali degli studi su Canova, iniziati già negli anni della tesi di laurea, che era incentrata su un testo di ekphrasis molto bello (il Panegirico ad Antonio Canova di Pietro Giordani) di cui poi avrei fatto un’edizione moderna, critica e commentata. Di lì, esattamente come poi è successo con Nella pietra e nel sangue, s’è risvegliato dentro di me lo specifico del romanziere, che per quel che ne capisco è: a partire da una cerca ricezione della realtà, avviene un lavoro immaginifico che sfocia in una restituzione narrativa. Se prima la ricezione della realtà era, per lo più, tarata sul contemporaneo, da quel momento mi ha iniziato a interessare – e sempre di più – la realtà che si può attingere attraverso ricerche documentarie. Che è un tipo specifico di realtà, certo, ma lo è a tutti gli effetti”.

Il doppio piano narrativo, che fa alternare Nella pietra e nel sangue fra il XIII secolo e l’oggi, parrebbe funzionale allo sviluppo dell’indagine sulla morte di Pier delle Vigne. La scena finale, che non riveleremo, sembra invece voler fuggire dal presupposto che solo l’acribia del presente consenta di interpretare correttamente il passato: il protagonista che torna sul luogo della morte del logoteta e poi se ne allontana furtivo sembra incarnare il fatto che il passato – o almeno alcuni suoi temi come il tradimento, l’efferatezza – sia qualcosa che grava sul presente e di cui il presente non potrà mai davvero liberarsi, pur sforzandosi di considerarlo in modo lucido. “La tesi di fondo”, conferma Dadati, “è che il passato non è e non può essere altro dal presente, e per questo non può essere guardato con lo sguardo ironico che si riserva a un vecchio prozio eccentrico ed eccessivo. La storia di noi occidentali è una storia – anche culturale – di violenza e di sopraffazione. Veniamo da lì e quel lì è ancora vivente. Siamo chiamati a essere lucidi, nel rivolgere lo sguardo al passato, proprio perché ci riguarda e non smette di accadere. Non smette mai. Non è mai altro da noi”.

Sin dalla prima pagina, ambientata nel 1249, Nella pietra e nel sangue è tutto un fiorire di metafore e descrizioni vegetali: tronchi, rami, foglie, tutto ciò che possa servire a risvegliare nel lettore la memoria del giardino dei suicidi del XIII dell’Inferno (“Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”). Il talento di Dadati sta tuttavia nel non calcare su un lessico che renda il medioevo troppo dissimile dal contemporaneo, distinguendo sì lo stile dei capitoli medievali da quelli attuali, ma conservando per il XIII secolo un linguaggio che non suonasse né aulico né distante. Del resto, in un romanzo storico la cosa più difficile è essere credibile facendo parlare i personaggi, e Dadati ci è riuscito.

“In Italia”, risponde, “la tradizione del romanzo storico – da I promessi sposi a Il nome della rosa – tende a scansare la questione della lingua. Il narratore tipo, che lo dica o non lo dica, si pone spessissimo nella posizione di chi ha scoperto una bella storia scritta male, e soprattutto scritta nel tempo che fu, e che la restituisce al lettore in una prosa efficiente. Poi c’è anche chi tenta di scimmiottare un qualche preteso medievalismo o barocchismo, ma fatto più o meno come lo farebbe un vecchio sceneggiato Rai, cioè con moine e nessuna ricerca di verità. Ecco: io mi sono posto da subito un problema di lingua anche e soprattutto perché ho due piani temporali da gestire, e si devono distanziare. Quindi, come fare la mia lingua medievale? Come l’imitatore di voci, o il mimo. Impregnandomi e poi provando a modulare”.

Ancora una volta, la strategia migliore è lo studio. “Ho letto alcune migliaia di pagine di prosa duecentesca (Salimbene de Adam, Pier delle Vigne stesso, Bonvesin de la Riva ecc.), che naturalmente è in latino, provando a infarinarmi del sistema metaforico invalso e della sintassi. In maniera non scientifica, ma impressionistica. Proprio come fa un imitatore di voci o un mimo, che ascolta o guarda, un bel po’, e poi prova. Il risultato per me è un edificio – il mio romanzo – che tiene insieme l’architettura antica della costruzione e gli oggetti di design del suo arredo. Le mie due lingue, diverse ma in equilibrio”. Quanto ad autori italiani da indicare come proprio modello nella narrativa storica, Dadati non ne ha: “L’unica cosa a cui guardo come a un valore irrinunciabile è di scovare storie/idee/materiali che mi paiono in connessione con la mia vita di oggi, che mi interrogano. Perché anche la materia storica diventi vitale, irrinunciabile, e che io possa quindi considerarla come qualcosa che merita ogni impegno”.

Anche il nuovissimo romanzo di Dadati – La modella di Klimt (Baldini+Castoldi, 2020) – verte sulla ricostruzione storica: quella del Ritratto di signora del pittore viennese, che Vittorio Sgarbi ha definito “una estrema confessione di Gustav Klimt”. Il romanzo è uscito a novembre, contemporaneamente al ritorno del quadro rubato in un’esposizione pubblica, che era prevista per fine mese a Piacenza; il volume è stato recensito sul Domenicale del Sole 24 Ore e da Paolo Di Paolo per Robinson de La Repubblica. Inoltre è disponibile online il video della presentazione durante l’edizione virtuale 2020 di BookCity.

Gabriele Dadati è ghisleriano dal 2000, anno in cui ha pubblicato il suo primo libro: la raccolta di racconti Catene di smontaggio (Berti, 2000). Fra le sue opere successive, particolari elogi hanno riscosso Sorvegliato dai fantasmi (Pequod, 2005 e poi Barbera, 2008), Il libro nero del mondo (Gaffi, 2009), Piccolo testamento (Laurana, 2011), seguiti dalla consacrazione con L’ultima notte di Antonio Canova (Baldini+Castoldi, 2018) e Nella pietra e nel sangue (Baldini+Castoldi, 2020). Sempre per Baldini+Castoldi è stato pubblicato il suo nuovo romanzo, La modella di Klimt.