Dopo la repentina conclusione dell’esperienza pavese (1725) Carlo Goldoni trascorre alcuni anni avventurosi, di furtivi spostamenti e di amori accatastati fra Friuli, Slovenia e Tirolo. Solo verso la fine del decennio riprende la carriera giuridica, tornando agli studi e accettando mansioni nel settore. A gennaio 1728 viene assunto come vicecoadiutore nella locale cancelleria criminale; l’anno successivo, a Feltre, è vicecancelliere criminale. È solo dopo la morte del padre, nel 1731, che Goldoni porta a compimento gli studi; iscritto all’Università di Padova, viene proclamato “avvocato veneziano” il 20 maggio 1732, nove anni dopo l’immatricolazione a Pavia. Inizia quindi la pratica presso lo studio di un celebre avvocato della città lagunare, Carlo Terzi.
Già dai tempi di Feltre è tuttavia documentata l’attività teatrale di Goldoni, che inizia con una collaborazione con la compagnia di Carlo Veronese, per il quale recita anche in due ruoli drammatici in opere di Metastasio (salvo poi rammaricarsi di non essere portato per il tragico). L’attività teatrale diventa rapidamente preponderante e la figura dell’avvocato Carlo Goldoni sbiadisce rapidamente sullo sfondo. Non però per l’anonimo estensore di un poemetto in versi martelliani uscito a Venezia nel 1765, “appresso Pietro Bassaglia, in Merceria di S. Salvatore al segno della Salamandra”, ovviamente “con licenza de’ superiori”, e intitolato Le avventure del celebre avvocato Carlo Goldoni.
Il componimento, manco a dirlo, è orrendo. Si nota, dietro i 292 versi, una mano poco adusa alla gestione della metrica, che spesso traballa in modo preoccupante, ma per nulla restia a forzare le rime. Né è facile comprendere l’intento dell’autore, se di dileggio o di elogio nei confronti del celebre conterraneo. L’ipotesi di Annamaria Mauro – la nostra Alunna che ha curato l’edizione del testo nel volume Carlo Goldoni ghisleriano (Collegio Ghislieri, 1993) – è che l’anonimo estensore avesse una certa familiarità con il Goldoni, tanto da ricostruirne con accuratezza i dettagli delle origini familiari, ma che col tempo l’amicizia possa essersi incrinata, causando l’ambivalenza del tono del pamphlet.
È lui stesso infatti a fare riferimento a “la intrinseca non meno / che reciproca amistà di ben nove lustri in qua, / trapassati senz’alcuno dispiacer tra l’altro e l’uno”. Un primo graffio arriva già quando viene descritta l’attività del padre, medico: “Della Fisica non manco erudito in parte, al fianco / appoggiossi di un foresto celeberrimo, e con questo / vario tempo egli convisse sinattanto che presisse / le sue massime a tal stato, ei divenne accreditato / col guarir di gente morta, e col farne altra sepolta”. Finito il censimento di tutti i membri della famiglia, con considerazioni poco signorili sul sembiante della madre di Goldoni, l’autore passa alla sua biografia.
È notevole che il passaggio dall’infanzia agli studi universitari, e dall’espulsione alla laurea a Padova, sia raccontato in un brevissimo giro di versi, vorticoso, che sembra voler o celare dettagli inappropriati o, più probabilmente, stendere un velo su anni che probabilmente l’autore non aveva potuto seguire da vicino. Del resto, se si crede alla sua dichiarazione sui “nove lustri” di amicizia, vuol dire che si erano conosciuti nel 1720, o più probabilmente nel 1721: cioè quando Goldoni, aduso alle fughe dai collegi, scappa dalla tutela dei domenicani di Rimini per raggiungere la madre a Chioggia a seguito di una compagnia di teatranti.
“Nacqu’ei dunque per destino Veneziano Cittadino, / e da giovine sbarbato in Collegio fu mandato / Ghisiglieri di Pavia a studiar Filosofia, / e la Legge appartenente a qualunque sia studente / per l’acquisto principale della Laurea Dottorale”, racconta il componimento, aggiungendo senza soluzione di continuità: “Insignito della stessa ove appunto si professa / tale egregia Facoltà, cioè in Padova, città / non men dotta che famosa”, il tutto senza battere ciglio rispetto al cambio di sede degli studi, che sembra inspiegabile. A meno di ritenere che, per l’autore, Goldoni avesse concluso un ciclo di studi al “Ghisiglieri” – di cui non si premura di controllare lo spelling, o forse sacrificandolo alle più elevate esigenze della metrica – e ne avesse intrapreso un altro a Padova. Chissà.
Curiosamente, più ancora che per la riforma della commedia di cui pure si mostra consapevole, l’autore delle Avventure dedica le parole più ammirate alla breve carriera giuridica del nostro Alunno (“Dunque in breve decorato della veste d’Avocato, / nell’impiego riusciva con non poca aspettativa” ), che dà inizio a un itinerario professionale – l’autore lo dà a Roma e a Milano – destinato a concludersi per nostalgia della patria veneta ma, soprattutto, con un’avventura quasi romanzesca: “Dopo tal scorsa dimora non vedendo ansioso l’ora / di tornarsene da novo nell’antico patrio covo, / mandò a effetto il stabilito suo simpatico prurito, / imprendendone il camino, ma il fatale suo destino / a’ suoi danni congiurato, vuolle che fosse assaltato, / come da lui riferto, da ladroni in un deserto; / e spogliato d’ogni cosa, una dama sua amorosa / lo vestì di tutto punto, e alla Patria poi giunto / fu per debito tributo da parenti sovenuto”.
Troppo lungo, il componimento ha il suo momento più felice in una breve digressione personale, in cui l’autore – prima di lasciarsi andare a una gragnola di citazioni da Aristotele, Plutarco, Augusto, Tiberio, ed Epitteto – esprime il proprio dispiacere per l’allontanamento dall’amico diventato celebre: “Di ciò molto rallegrato me ne son seco in passato, / come quell’amico vero, parzialissimo, e sincero, / che le son fra quanti mai l’hanno in stima, e caro assai, / ma in veder che non risponde, non saprei mai pensar donde / ciò dipendere potesse, quandoché non intendesse / dir con tale contrasegno, che di lui non son più degno. Riflettendo a’ casi miei, veramente non dovrei / in tal guisa esser trattato, stante il cuore sviscerato / che per lui sempre ho nodrito, ma deluso, anzi schernito / con stupor nel rimirarmi darei quasi irato all’armi, / se non fosse il san ritegno, che mi tien dentro nel segno”. È evidente che il tono vuol essere ironico; è altrettanto evidente che qui all’autore sfugge la mano, lasciando tracimare tutto il risentimento per essersi sentito accantonato.
L’identità dell’autore di questo componimento di scarsa diffusione resta misteriosa. Può trattarsi di un amico della giovinezza che cerca in qualche modo di richiamare la sua attenzione; oppure di un rivale che, avendo raccolto informazioni dettagliate sulle sue origini, vuole rinfacciare a Goldoni la scelta di distaccarsene andando a lavorare in Francia, dove si trovava dal 1762. È altamente improbabile che si tratti di un compagno di studi dei tempi pavesi, il quale altrimenti non avrebbe ignorato tutto il materiale su cui avrebbe potuto ricamare a fini satirici o, quanto meno, avrebbe saputo come si scrive “Ghislieri”. Di certo c’è solo che Goldoni non gli rispose nemmeno quella volta.
Il testo completo de Le avventure del celebre avvocato Carlo Goldoni si trova nel volume Carlo Goldoni ghisleriano (Collegio Ghislieri, 1993), a cura di Annamaria Mauro.