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Il mestiere di fare libri – La “Storia confidenziale dell’editoria italiana” di Gian Arturo Ferrari
Storia confidenziale dell'editoria italiana

Il riferimento è, presumibilmente, al titolo della quasi omonima Storia confidenziale della letteratura italiana di Giampaolo Dossena; ma cos’è, in concreto, la Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari, da poco uscita per Marsilio? Si tratta infatti di un libro che può essere letto in più modi: ricostruzione storica, memoir o – secondo dicitura in copertina – romanzo.

La lettura storica è quella più immediata ma non per questo banale. Prende avvio dalla presenza pressoché mitologica di due originari gemelli, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, nati rispettivamente il 31 ottobre e il 2 novembre 1889, l’anno in cui Treves pubblica sia Mastro-don Gesualdo sia Il Piacere e, dovendo scegliere su quale opera concentrare la propaganda, punta sul personaggio d’Annunzio anziché sul più discreto Verga. Dalle primissime pagine di Ferrari vediamo dunque nascere l’editoria italiana contemporanea come un essere bicefalo, intrinsecamente doppio: che si tratti della rivalità fra i due grandi gruppi o dell’alternativa fra successo di pubblico e qualità, o più semplicemente del contrasto fra le giuste ambizioni culturali e le altrettanto giuste mire economiche. Questa doppiezza irriducibile è la caratteristica che emerge ciclicamente per tutte le trecentosessanta pagine e che rende difficile fissare l’editoria in una definizione univoca.

Il taglio memoriale, allo stesso modo, è notevole. Anzitutto nella gustosa autobiografia – prima di diventare Presidente della Fondazione Ghislieri, Ferrari è stato ai vertici dell’intera galassia Mondadori – che inizia idealmente nel momento in cui l’autore scopre come, se un biglietto del tram costa trentacinque lire e un volume Bur settanta, basta andare e tornare da scuola a piedi per accaparrarsi un libro; e che culmina nel dialoghetto con una signora che gli domanda come mai avesse intrapreso la carriera editoriale: “Perché volevo i libri”. “Ma ce li aveva anche prima”. “Sì, ma io li volevo tutti”. Il portato romanzesco del volume sta tuttavia non solo nella prospettiva personale (lo conferma la postilla: “Le cose scritte in questo libro sono quasi tutte vere. Me compreso”) ma anche nella cura narrativa degli aneddoti: lo sapevate che le trincee austriache durante la Prima guerra mondiale erano fatte con legname Feltrinelli? E che il primo film della saga di Fantozzi è stato girato nei corridoi (fantozziani, appunto) della Rizzoli?

Alla luce di questo contesto vanno letti anche i competenti giudizi tranchant sulle imprese editoriali, come quello sulla Enciclopedia Einaudi, “l’opera più arrogante e presuntuosa mai concepita”, o quello sulla reazione snob all’uscita degli Oscar Mondadori: “Gli Oscar, perché non dirlo?, così volgari, sono una conferma e una liberazione. Confermano che i libri veri sono i nostri e mettono tutti questi librucoli al loro posto, fisicamente nelle edicole e idealmente accanto al cinema e alle altre forme di intrattenimento. Siamo liberi di leggerli, certo, quanti ne vogliamo, per divertirci, per passare il tempo, come giocare a carte, ma i libri, quelli veri, sono tutt’altra cosa”. Dalle pagine della Storia confidenziale emergono immagini talora spiazzanti, come quella di un Berlusconi che “ha rispetto per i libri e si fida di chi li fa. Ne ha una visione ben educata, tradizionale, un po’ scolastica. Ama le impressioni in oro sui dorsi e vorrebbe che dedicassimo più attenzione a Torquato Tasso”.

Questo libro può tuttavia venire utilizzato altrettanto proficuamente come breviario, anzi, come oracolo manuale per chiunque voglia accostarsi al lavoro editoriale. Contiene aforismi che valgono interi master. Proviamo a darne un precipitato: “L’editoria è un Giano bifronte, da un lato mostra il volto amico della cultura, ma dall’altro il cipiglio dell’economia”; “Il grande titolo non enuncia e non descrive: evoca”; “Gli editori vanno valutati per quello che fanno e non per quello che non fanno”; “Il prezzo” (ma lo riferisce da Franco Angeli) “non si misura in assoluto, è una relazione fra il libro e il suo pubblico”; “Chi va a Francoforte è un editoriale cresimato”; “In editoria non esistono crisi economiche, solo crisi editoriali”; “Il punto chiave è comunicare non i singoli libri ma il marchio”; “I libri sono come la scopa delle streghe, a cavallo dei libri si arriva dappertutto”; “La formula migliore è: argomenti bassi, trattazioni alte”; “Il testo è metà del libro”; “Se un libro è buono, avrà successo. Se non ce l’ha, vuol dire che non era tanto buono”; “Meglio un buon titolo e niente libro che un buon libro e niente titolo”; “Il testo, finché non viene pubblicato, non è inciso nella pietra nelle tavole della legge”.

È dunque un volume che svela al pubblico non tanto dei retroscena quanto delle verità spesso sottaciute; lo smalizia spiegandogli che “in editoria non c’è mai niente di puro, le più nobili intenzioni sono sempre mescolate ai più bassi interessi”, ma lo consola chiarendo che il sale dell’editoria è una “bella commistione di amicizia, soldi e valore letterario”. Si crea così un attrito fra l’ideale di editoria che ha il grande pubblico (quando ce l’ha) e una più prosaica realtà che brulica di scrittori premiati dal Quirinale dei quali si scopre che sono ancora vivi, case editrici affette da disturbo di identità, una pletora di lettori forti che, gratta gratta, si rivelano signore che compulsano accanitamente romanzi rosa sospirando in attesa del grande amore.

Lo stesso lavoro dell’editoriale, del resto, consiste in uno svelamento: nel “chiedersi se molte cose che sembrano ovvie e naturali – quel titolo, quella copertina, quel formato, quel prezzo – non siano state invece calcolate, messe giù come una trappola”; la vocazione editoriale nasce dal goloso sospetto “di essere di fronte a una scena, a un artificio accuratamente preparato, a un teatro”. Per questo gli editoriali sono uniti dalla “ambigua solidarietà dei camerieri, del personale di servizio o dei servi di scena, quelli che stanno dietro le quinte, che sanno che cosa c’è dietro”, ma anche dalla “fascinazione per la genesi impura di quanto di meglio gli uomini siano stati capaci di fare su questa terra”.

Le pagine più forti di questa Storia confidenziale sono forse quelle dedicate alla libertà editoriale. Che non ha nulla a che vedere né con la censura né con la dittatura – almeno non nella porzione di storia italiana recente presa in considerazione – ma proprio con la tendenza di alcuni proprietari di case editrici di scavalcare gli editoriali nello scegliere quali libri pubblicare. Ferrari non lamenta tanto l’attentato all’autonomia quanto “la contraddizione in termini: pagare qualcuno per fare un mestiere che non gli si riconosce la capacità di fare”. Di modo tale che, conclude Ferrari, “se ci si lascia imporre che cosa pubblicare e che cosa no, all’improvviso tutto si immiserisce, l’editoria stessa non ha più senso, meglio cambiar mestiere”.

Gian Arturo Ferrari, ghisleriano dal 1963, è Presidente della Fondazione Ghislieri. Fino a tutti gli anni Ottanta ha fatto convivere l’insegnamento universitario – come Professore di Storia del Pensiero Scientifico presso l’Università di Pavia – e l’attività editoriale. Abbandonata l’accademia nel 1989, in Mondadori è stato Direttore Libri nei primi anni Novanta e, dal 1997 al 2009, Direttore Generale della Divisione Libri. Dal 2010 al 2014 ha presieduto il Centro per il libro e la lettura, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Dal 2015 al 2018 è stato Vicepresidente di Mondadori Libri. Ha pubblicato il saggio Libro (Bollati Boringhieri, 2014) e il romanzo Ragazzo italiano (Feltrinelli, 2020), finalista al Premio Strega. A questa prova narrativa Ghislieri.it ha dedicato una lettura approfondita.