Sul canale Youtube del Collegio Ghislieri è disponibile il video integrale della presentazione di Labirinto italiano di Walter Veltroni nella nostra aula virtuale. L’Autore dialoga con Antonio Gurrado, Alunno del Ghislieri e opinionista del Foglio quotidiano.
Sembra esserci una costante negli articoli di Walter Veltroni usciti sul Corriere della Sera e raccolti in Labirinto italiano. Viaggio nella memoria di un Paese(Solferino, 2020): una vena imprevista di malinconia. Non tanto nostalgia, ché anzi le scene richiamate alla memoria da Veltroni nella sua lunga ricognizione sono tutte vivide e presenti, come se le avesse dinanzi agli occhi e ce le mostrasse nel momento stesso in cui accadono; vale per la tragedia di Alfredino e la strage di Piazza della Loggia, per le canzoni di Gianni Morandi e l’omicidio di Sergio Ramelli. La malinconia pare emergere dalle storie narrate come una venatura nel marmo, una specie di contraccolpo del pensiero che lascia una patina un po’ triste anche sulle storie più luminose.
Un esempio nazional-popolare può aiutare a rendere l’idea. Il 17 giugno 1970 è una giornata più che storica, leggendaria per lo sport: a Città del Messico, durante i Mondiali di calcio, si svolge quella che viene eternata come el partido del siglo, Italia-Germania 4-3, a cui Veltroni dedica pagine di appassionata intensità e capillare fedeltà nel racconto. È una giornata eroica; ma nell’ultimo capoverso del capitolo di Labirinto italiano ecco che fanno capolino i pomodori che, per aver perso la partita successiva, i giocatori italiani si vedono lanciare addosso dai tifosi imbufaliti che aspettano il loro ritorno all’aeroporto. Sarà stucchevole dire che lo sport è metafora della vita, ma sicuramente in questa nota sgradevole su cui si conclude il racconto, questo repentino vilipendio degli eroi di pochi giorni prima, c’è molto dell’anima contradittoria (e forse incomprensibile) dell’Italia.
E la stessa vena pare colpire molto Veltroni, lasciandolo interdetto e schiettamente dispiaciuto, perfino nelle pagine forse più lievi del volume, quelle del prologo dedicato a un elenco telefonico di Roma del 1946, recuperato da un utente che se ne era disfatto. Intenerisce, oggi, leggere in quelle pagine gli indirizzi esatti e i numeri telefonici (brevissimi) di Giulio Andreotti, Giuseppe Di Vittorio, Ugo La Malfa, Giovanni Gronchi. Sembra un’istantanea di un’Italia finalmente pacificata se non felice: “Allora non si aveva paura di mettere il proprio numero e il proprio indirizzo sull’elenco, alla mercé di tutti”, spiega Veltroni, “perché la democrazia e la libertà erano così belle ed erano state così faticosamente conquistate che si immaginava nessuno ne avrebbe più abusato”. Ecco che, a margine di questa considerazione, si addensano nubi: quella storica, relativa alla necessità di interrompere la pubblicazione degli elenchi stradali negli anni Settanta, durante la stagione del terrorismo; e quella teorica, che viene in mente a chiunque pensi alle ondate d’odio che oggi i protagonisti subiscono o talvolta riversano su quelle evoluzioni complicatissime degli elenchi telefonici, i social network. All’argomento Veltroni ha dedicato un volume specifico lo scorso anno, Odiare l’odio (Rizzoli, 2020).
Labirinto italiano va oltre la mera raccolta di articoli episodici poiché è solidamente intessuto degli interessi costanti di Veltroni. Lo scavo nella memoria collettiva, che su vasta scala era forse iniziato con l’iniziativa di cui Veltroni, da direttore dell’Unità, si era fatto pioniere: la ripubblicazione in allegato al quotidiano di libri, film, album. Lo scavo, ancora più impegnativo, nella coscienza italiana, non sempre pulitissima; che vede le sue pagine più dolorose nelle interviste che ricordano gli anni del terrorismo, sempre condotte con garbo ma con altrettanta acribia. C’è anche in una pagina in cui incontra Adelio Terraroli, ghisleriano e parlamentare del PCI recentemente scomparso, presente sul palco di Brescia nella giornata di Piazza della Loggia. A Terraroli, da grande intervistatore, Veltroni lascia la scena per descrivere dall’interno ciò che non si deve e non si può rimuovere: “La piazza era piena. Dopo lo scoppio pensai fosse un petardo. Ci precipitammo sotto i portici. C’erano decine di corpi a terra. Sangue ovunque. I feriti, i manifestanti che erano scappati tornavano indietro per aiutare. Noi non sapevamo se ci fossero altre bombe”. Anche a questo tema Veltroni ha appena dedicato un volume specifico, uscito proprio in questi giorni: Il caso Moro e la Prima Repubblica (Solferino, 2021).
Ma c’è sopra tutto questo una felicità narrativa che caratterizza le prove di Veltroni anche come romanziere, regista, documentarista. Una capacità di tratteggiare i personaggi con poche righe, talvolta poche parole: accade ad esempio nell’incontro con le monache di clausura di Città della Pieve, dove la voce di Veltroni quasi sparisce, limitandosi a brevi e secche domande, e lascia emergere le tante voci delle suore che rispondono di volta in volta, facendole ascoltare al lettore come se fossero tutte distinte e diverse ma provenissero dal buio.