Approvato con Regio Decreto del 18 febbraio 1883, l’allora nuovo Regolamento del Regio Collegio-Convitto Ghislieri di Pavia è un piccolo gioiello che, in poche pagine, non si limita a rendere concretamente l’idea della vita quotidiana del Ghislieri un secolo e mezzo fa. Fa anche respirare dalle sue fitte righe l’atmosfera dell’istruzione universitaria d’eccellenza nell’Italia ancora giovane di fine Ottocento, così come doveva permeare una istituzione che “accoglie e mantiene gratuitamente” dei “giovani d’ingegno” affinché possano “educarsi ai buoni costumi ed istruirsi nelle lettere e nelle scienze alla Università di Pavia”.
All’epoca il Collegio accoglieva ottantasei alunni, selezionandoli tramite un concorso per esami “da darsi nella Università di Pavia, colle norme stabilite da speciale regolamento”, con una commissione nominata e presieduta dal Rettore dell’ateneo; a ciascuno dei membri veniva corrisposta un’indennità di 150 lire, con un incremento di altre 50 se risiedevano fuori Pavia. I candidati dovevano presentare un certificato di nascita “da cui risulti che il giovane appartenga alle province lombarde secondo la circoscrizione anteriore al 1859” ma anche un “certificato di buon costume rilasciato dal sindaco del comune in cui tenne dimora negli ultimi tre anni” e un certificato medico “comprovante che il giovane ha sofferto il vajuolo o fu vaccinato con effetto”, oltre a una “attestazione del sindaco sullo stato della famiglia del concorrente”, inclusiva della professione di ciascun membro della famiglia, de “la natura, quantità e il valore approssimativo dei beni posseduti” e “la rendita annua approssimativa” (o, nel peggiore dei casi, “l’ammontare delle passività”).
Precondizione della partecipazione all’esame era sottoporsi a una visita tenuta dal “medico-chirurgo” del Collegio. Per gli studenti pavesi era messo a disposizione un numero limitato di posti speciali, “stabiliti dalle tavole di fondazione”; ulteriori quattro erano a disposizione di alunni della fondazione Castiglioni, “nominati dal patrono temporario della medesima, indipendentemente da concorso o da esame” ma “pareggiati interamente a quelli della fondazione Ghislieri nei diritti come negli obblighi”. La conservazione del posto di anno in anno, invece, era subordinata a tre requisiti: anzitutto, la conferma dello “stato economico della famiglia”; quindi, l’“aver riportato nel complesso degli esami prescritti il grado di merito occorrente per l’esonero delle tasse”; infine, “avere osservato costantemente una condotta irreprensibile”.
Una lunga sezione del regolamento è dedicata al conferimento, da parte del Collegio, di ben sei Premi Vittorio Emanuele, destinati a “studenti delle Università e degli Istituti superiori di tutto il Regno, a condizione che abbiano compiuto almeno l’ultimo anno di studio e da non oltre due anni conseguita la laurea nella Università di Pavia”. La giuria giudicava della “dimostrata speciale attitudine a perfezionarsi in una data disciplina” (ma restava comunque necessario l’immancabile “certificato di buona condotta morale rilasciato dal sindaco”), utilizzando come titolo di preferenza l’essere stato alunno del Collegio Ghislieri o, in mancanza, “di altro Collegio universitario”. Altri titoli di preferenza erano l’essere lombardo, “l’avere pubblicato qualche lavoro” e “il conoscere le lingue straniere”. Il Premio consisteva nella possibilità di trascorrere un anno di perfezionamento in Collegio, quantificato in mille lire (se ne deduce che, per fungere da commissario al concorso di ammissione, l’Università giungeva a pagare all’incirca il valore nominale di due mesi di permanenza in Collegio). Se il vincitore era necessitato a svolgere studi di perfezionamento in Università altre da Pavia, il Premio Vittorio Emanuele veniva convertito in assegno pecuniario rateizzato mensilmente; severo, l’articolo 24 ammonisce: “I pagamenti si fanno alla cassa del Collegio. I premiati provvedono all’esigenza”.
Com’era organizzato il Ghislieri? A capo c’erano un Rettore e un Vicerettore, che “hanno stanza nel convitto in locali destinati all’esclusivo alloggio di loro”. Non potevano avere altri impegni se non quelli relativi al Collegio né potevano “abbandonare la città contemporaneamente, neppure nel corso delle vacanze”. Il Rettore “avverte ogni alunno che entra nuovo in Collegio dei doveri che gli incombono” e “riceve la parola d’onore che osserverà fedelmente le discipline”; “invigila sulla condotta e sui costumi degli alunni così nel recinto dello stabilimento come fuori di esso”; “li avvicina per educarne il carattere e l’ingegno”; “li ammonisce quando cadono in qualche mancanza”; ma stabilisce anche “l’orario e le regole di comune convivenza e d’igiene”. Il Rettore manteneva tre contatti stabili: con le famiglie degli alunni, tramite regolare corrispondenza che si trasformava in bollettino medico in caso di malattia; con il Ministero dell’Istruzione, da cui dipendeva; e con la Camera di disciplina, cui era tenuto a sottoporre mensilmente un rapporto non solo sulla condotta ma anche “sui bisogni o desideri degli alunni in ordine agli studi”.
Il Collegio apriva i battenti il giorno prima dell’apertura dell’Università e chiudeva alla fine della sessione estiva d’esame. Ogni sera coprifuoco alle ventuno, e “chi ritarda a rientrare o pernotta fuori del Collegio senza il biglietto di permesso del Rettore, commette un atto di insubordinazione”. In generale, le infrazioni disciplinari venivano punite prima con una ammonizione verbale, poi con una scritta, quindi con la “rimozione temporanea, estensibile da un mese ad un anno”, infine con l’espulsione comunicata anche al Ministero; le pene più gravi venivano sancite dalla Camera di disciplina che “istituisce un regolare processo scritto, al quale è chiamato l’alunno che vi ha dato occasione, per le sue discolpe e pronuncia un giudizio motivato”. E se si fossero ribellati in tanti, come non era peregrino immaginare nell’Italia sempre più tesa di fine Ottocento? In tal caso il Rettore aveva facoltà di “rimuovere sull’atto i promotori e i più riottosi” senza passare attraverso i gradi di ammonimento e giudizio.
Gli Alunni erano obbligati a essere tutti in Collegio dal giorno di apertura al giorno di chiusura; venivano loro consegnati “i mobili della camera” e s’impegnavano “a restituirli alla fine dell’anno nella stessa condizione, salvo il naturale deperimento”; ciascuno doveva portare con sé biancheria e coperte nonché, specificava prudente il regolamento, “il vestiario ed il corredo necessario per la pulizia della persona”. In comune gli studenti avevano invece “la mensa, il riscaldamento e i lumi”. Per lo svago erano invece a disposizione “il giardino, il bigliardo, la musica e la scherma”, mentre la biblioteca (finanziata con 1500 lire annue e diretta dal Rettore stesso) era atta “a promuovere negli alunni la coltura generale e ad agevolare loro lo studio delle materie dei corsi a cui sono inscritti”. Quanto a chi si ammalava, “la cura medica e le medicine sono a carico del Collegio; i consulti sono a carico dell’alunno”. Oltre che di “frequentare con diligenza esemplare” le lezioni universitarie, era fatto obbligo agli alunni di “vestire abiti decenti e portare cappello a tesa soda”.
Il menu prevedeva caffè nero (e basta) “alla levata”, per pranzo “caffè e panna o una pietanza, con un quinto di litro di vino”, per cena “minestra, due pietanze, formaggio, frutta o paste dolci e tre quinti di litro di vino”, con “cibi convenientemente alternati” e pane distribuito “in ragione del bisogno individuale”. Menu speciale per Pasqua, Pentecoste, Natale, “nel giorno della nascita delle LL. MM: il Re e la Regina”, “nel giorno di San Pio V” e nella festa dello Statuto, alla prima domenica di giugno. Non era possibile protestare in mensa per il cibo: bisognava fare specifica rimostranza. Rettore e Vicerettore dovevano assistere ai pasti “per vegliare che si osservino quei modi civili e quella calma nel conversare che s’addice ad eletti studenti universitarii”. Un capolavoro di formalità sabauda, o forse di leziosità umbertina, è l’articolo che affida all’economo il compito “di curare che i cibi siano confezionati colla massima diligenza, che sui deschi ogni cosa sia ben disposta, in buona condizione, in sommo grado pulita e che il servizio delle mense sia fatto con tutta la precisione”. Mai quanto però l’articolo 47, che in due righe sintetizza l’intero Zeitgeist applicandolo al microcosmo del Ghislieri di fine secolo: “Gli Alunni devono avere ognora presente che appartengono alla classe più eletta della società e portarsi conseguentemente verso di tutti, in modo dicevole a persone di studio”.
Il Regolamento del 1883 è custodito nella Biblioteca del Collegio Ghislieri, il cui patrimonio librario sta venendo digitalizzato grazie a un accordo con Google Books. Precedenti puntate di “Letture ghisleriane” sono state dedicate alla Liberazione del Collegio dai soldati tedeschi nel 1945, alle prime conseguenze degli episodi di rivolta in Collegio a fine Ottocento e al tentativo da parte degli Alunni in corso di trasformare il posto in Collegio in fruizione di una borsa di studio nel 1890, ai ricordi del concorso di ammissione nel 1947, ai valori storici del Collegio in un breve scritto di Pietro Ciapessoni, all’omonimo Collegio Ghislieri di Roma, a come i temari scolastici di fine Ottocento raccontavano gli anni trascorsi da Carlo Goldoni in Ghislieri e al viaggio di un Alunno nel Carso appena finita la Prima Guerra Mondiale.