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27 novembre 1567 – L’origine del Collegio Ghislieri

L’uomo è naturalmente propenso più al male che al bene. Nelle parole esatte di Pio V, “homo a natura pronus redditur magis ad malum quam ad bonum”: se lasciato a sé stesso, l’individuo tende a degenerare, dunque c’è bisogno di creare attorno a lui un contesto che si opponga alla forza che trae giù la sua anima e gli consenta di invertirne il destino. Pio V è Papa dal 7 gennaio 1566. Ascetico domenicano, grande moralizzatore della Chiesa di Roma, determinato fautore della traduzione concreta dei decreti del Concilio di Trento (conclusosi nel 1563), Antonio Michele Ghislieri decide di fondare un collegio per studenti universitari che porti il nome del proprio casato. Questo collegio dev’essere a Pavia, dove ha sede l’università più prossima al luogo natio del Pontefice, che è di Bosco Marengo, nell’agro alessandrino; e deve ospitare alunni della medesima provenienza.

Non conta che in città possano esserci altri collegi, come quello fondato un secolo addietro dal cardinale Branda Castiglioni, né che San Carlo Borromeo dia disponibilità a ospitare, unificando le forze, studenti boschensi e alessandrini nel collegio che su sua iniziativa si veniva erigendo a Pavia proprio in quegli anni. Il Papa rifiuta perché vuole che il Ghislieri non sia un collegio ma il Collegio di Pio V, ideato secondo una ratio ben definita; anzi, l’incarnazione architettonica e accademica di una precisa volontà del Pontefice, se non di una filosofia e di una complessiva visione del mondo. Diverso dagli altri collegi pavesi, il Ghislieri dev’essere il contesto creato attorno a singoli individui, gli studenti, affinché venga contrastata e sconfitta la tendenza che li avrebbe naturalmente portati al male, al tralignamento, alla dissipazione. Nell’intenzione stessa del Papa fondatore, il Ghislieri è radicato sulla vocazione all’eccellenza: meglio ancora, sul tentativo di offrire a chi ci vive l’ambiente ideale per migliorarsi con determinazione e continuità.

Come dev’essere questo Collegium Ghisleriorum? Prima ancora della posa della prima pietra, Pio V ha chiarissime le idee sulle caratteristiche da perseguire. Oltre che eccellente, il Papa vuole che il Ghislieri sia un Collegio territoriale, benefico, funzionale, frugale, ricco (o quanto meno finanziariamente autonomo), indipendente, universale, ben regolato, gerarchico, esemplare e laico. Il modo in cui il Ghislieri viene fatto nascere e crescere negli anni della vita del Pontefice rispecchia in modo cristallino queste decisioni, che lo rendono unico nel panorama dei collegi pavesi e che sono probabilmente la causa della sua longevità, della sua resistenza ai secoli e ai rovesci della storia. Nel mezzo millennio che ha trasformato il mondo, grazie ai saldi principii del fondatore, il Ghislieri ha avuto la capacità di evolversi senza tradirsi e di adattarsi senza compromettersi.

Il radicamento del Ghislieri sul territorio è testimoniato dalla distribuzione dei ventiquattro posti di alunno che, una volta a regime, sarebbero stati resi disponibili. Un terzo di essi, dunque otto in tutto, spetta a studenti del territorio di Bosco; dieci altri vanno divisi (rispettivamente quattro e sei) a città e contado di Alessandria; i rimanenti sei erano equamente ripartiti fra il contado di Tortona, la diocesi di Vigevano e quella di Pavia. Pio V intende dunque dotare il Ghislieri di un’identità derivante dal condividere gli alunni la propria provenienza con il Papa fondatore. Non solo. La preferenza accordata al contado rispetto alla città, l’occhio di riguardo nei confronti delle aree rurali a tutto discapito di Milano – vicina ma nemmeno menzionata – denota una precisa politica nella selezione. Il Ghislieri dev’essere un collegio benefico, che dia possibilità di studiare a chi non può permetterselo e funga da ciò che oggi si definisce ascensore sociale. A chi si candida a essere ammesso in Collegio è fatta richiesta di essere almeno diciottenne, figlio di matrimonio legittimo, di comprovata fede cattolica (riconosciuta dal Vescovo o da altra autorità religiosa del territorio) ma senza appartenere a ordini religiosi. Soprattutto, però, nelle intenzioni di Pio V gli alunni del Ghislieri devono essere poveri, “paupertate laborantes”: al punto che se per una qualche ragione la famiglia di provenienza dovesse arricchirsi nel corso dei sette anni di massima permanenza in Collegio, allora l’alunno avrebbe dovuto cedere il proprio posto a un altro occupante.

L’esperienza romana ha insegnato a Pio V che non è possibile rinnovare i costumi dei cattolici se costoro sono adusi alle mollezze, allo sfarzo, allo spreco. Dietro la fondazione del Ghislieri si cela, neanche tanto sottilmente, la persuasione che il rinnovamento delle terre cattoliche passi da un rinnovamento sociale, prima ancora che morale; il Pontefice è convinto della necessità di creare una nuova classe dirigente pescandola dagli strati sociali rimasti indenni grazie alla povertà. Il Ghislieri è il tramite per far affacciare gli indigenti a un mondo che ha bisogno della loro dirittura, garantendo loro la possibilità di coltivare gli studi senza lasciarsi tentare dall’avidità, ossia senza cedere al male naturale che attira ogni uomo. Dalla bolla di fondazione, il Collegio trarrà il motto che ancora oggi gli studenti vedono campeggiare: Sapientia, cum probitate morum coniuncta, humanae mentis perfectio.

Per conseguire la perfetta fusione fra sapienza ed etica, è necessario che il Collegio risulti quanto più possibile funzionale alla bisogna, tralasciando ogni appariscenza. Per questo Pio V decide di affidare il progetto a Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrini, con l’esplicita raccomandazione di evitare lo sfarzo e concentrarsi su saldezza e compattezza dell’edificio: come la casa di Dio doveva essere sontuosa per dettare riverenza a chiunque entrasse in chiesa, così un collegio doveva ispirare austerità a chiunque si avvicinasse alle mura. E poiché garantire un alloggio agli studenti è la priorità assoluta, già mentre si procede alla costruzione del Ghislieri, poco distante dal corpo dell’Università di Pavia, i primi quattro alunni (tutti boschensi) vengono ospitati presso una sede temporanea già dal 27 novembre 1567, così da poter trarre profitto già dall’anno accademico appena iniziato. Poco più di un anno dopo, il 10 gennaio 1569, Pio V emana la bolla Copiosus in misericordia Dominus, che stabilisce le norme istituzionali per il retto funzionamento del Collegio.

Si comprende da tanta cura che Pio V miri a rendere il Ghislieri un’istituzione longeva, solida e quanto più possibile autonoma. Anzitutto, è necessario che il Collegio sia in grado di mantenersi da sé e, se non ricco, sia almeno dotato di cospicue entrate che ne garantiscano la sopravvivenza senza dover dipendere da erogazioni altrui. Inoltre, il Ghislieri viene posto sotto la diretta protezione di San Pietro, ossia del suo successore terreno: ciò allo scopo di evitare che potentati locali – civili o ecclesiastici – possano attentare alla sua libertà finanziaria e accademica. Per alimentare la propria indipendenza, il Ghislieri deve essere completo al proprio interno; deve rispecchiare insomma la humanae mentis perfectio anche nella diversità dei saperi che custodisce. Ecco dunque la scelta di accogliere fra le mura del Collegio non solo studenti di teologia ma anche di diritto (sia civile sia canonico), medicina, matematica, scienze, filosofia, lettere. Questo riconoscimento della vocazione universale al sapere conferma che nelle intenzioni di Pio V il retto comportamento non è vincolato allo studio della dottrina ma va associato all’apprendimento della materia che si reputa più opportuna. Ciò comporta che all’interno del Ghislieri non venga prescritta una gerarchia dei saperi ma che essa si formi autonomamente, in base agli interessi degli alunni.

Nel Ghislieri originariamente progettato da Pio V una gerarchia naturale era stabilita dall’anzianità ma anche dall’impegno negli studi. Ai più anziani e ai più bravi la bolla Romani Pontificis Providentia dava il compito di organizzare lezioni informali, nei periodi di vacanza universitaria, e incitare gli altri alunni a discutere su quei temi comuni, così da mantenersi sempre preparati ed esercitati. L’esemplarità è da subito una delle peculiarità salienti del Ghislieri. Gli alunni maggiori devono essere d’esempio ai minori acciocché, fuor di Collegio, i ghisleriani possano essere di esempio al mondo. La minuziosità con cui la bolla descrive la routine che va tenuta entro le mura del Collegio è finalizzata a trasformare tale routine in abitudine e l’abitudine in stile di vita e fortezza d’animo. In questo modo può realizzarsi il duplice intento di Pio V: da un lato, evitare che gli studenti si sentano abbandonati a sé stessi e finiscano per cedere al male; dall’altro, rinnovare la società per mezzo dell’inoculazione di nuovi membri della classe dirigente dalla comprovata probità e competenza: gli alunni che, una volta terminato il corso di studi, conserveranno impronta degli anni in Collegio e col passare dei secoli diventeranno comunemente noti come Ghisleriani.

In occasione dell’anniversario dell’apertura del Collegio Ghislieri ai primi studenti, datata 27 novembre 1567, riproponiamo un estratto del capitolo “L’origine” pubblicato nel volume celebrativo Ghislieri450. Un laboratorio d’intelligenze (a cura di Arianna Arisi Rota, Einaudi, 2017) e scritto da Antonio Gurrado. Una più ampia trattazione dell’argomento si trova nel primo capitolo del saggio dell’allora Rettore Aurelio Bernardi, “I quattro secoli del Ghislieri”, pubblicato nel volume celebrativo Collegio Ghislieri 1567-1967 (a cura dell’Associazione Alunni, Alfieri & Lacroix, 1967).