Apocalittiche o integrate? – L’evoluzione delle serie tv secondo Lorenzo Donghi e Mattia Mariotti

Studiare le serie tv non significa solo analizzare l’evolversi di forme narrative e mezzi di comunicazione; è un modo per scoprire come è cambiato il pubblico, con le proprie passioni ed esigenze. La serialità televisiva è cambiata perché siamo cambiati noi e noi siamo cambiati perché la serialità televisiva ci ha cambiati. Su questa svolta si impernia il corso interno La serialità televisiva. Origini, evoluzioni, contemporaneità, che il Collegio Ghislieri organizza in esclusiva per i propri alunni e che viene tenuto in queste settimane da Lorenzo Donghi e Mattia Mariotti.

Entrambi docenti a contratto presso l’Università di Pavia – Donghi di Scrittura critica per i media contemporanei, Mariotti di Forme e linguaggi della televisione contemporanea e di Storia e linguaggi della radio ed ella televisione – hanno accettato di tenere questo corso congiunto in Ghislieri per proporre un percorso guidato nell’orizzonte della serialità televisiva, ricostruendo la storia delle sue tappe fondamentali dagli albori degli anni Quaranta alla distribuzione OTT (Over the top) su banda larga, passando per l’età dell’oro di X-Files e ER-Medici in prima linea. Lorenzo Donghi, proveniente da studi sull’autoiconografia in contesti estremi come il carcere di Abu Grahib, lavora sull’analisi dei linguaggi della medialità contemporanea e sullo sviluppo di forme e modelli della cultura visuale, concentrandosi in particolare sul rapporto fra cinema e storia. Mattia Mariotti lavora invece da tempo nel campo televisivo: dal 2009 è in Sky, dove si occupa di gestione strategica dei contenuti, ricoprendo da quest’anno l’incarico di Head of Tv Series & Kids per Sky Italia.

“La svolta è avvenuta agli inizi degli anni 2000”, spiegano Donghi e Mariotti a Ghislieri.it, “quando HBO ha dato inizio a una vera e propria rivoluzione narrativa. In questo modo il network americano ha contribuito all’affermazione di quella che Jason Mittel ha definito complex tv: una narrativa caratterizzata da complessità di temi, personaggi, storytelling, linguaggio. Ancora oggi gran parte della serialità presenta queste caratteristiche”.

È a causa di questa svolta che quelli che guardiamo oggi ci sembrano prodotti differenti da quelli risalenti a decenni or sono: “Lo spettatore è radicalmente mutato insieme al prodotto”, commenta Mariotti. “L’arrivo delle piattaforme streaming ha determinato una seconda rivoluzione, quella della fruizione, consentendo allo spettatore di manipolare a piacimento il tempo del racconto, fino ad allora intoccabile. Noi, da ragazzi, aspettavamo con ansia le nuove puntate di settimana in settimana; oggi, se voglio, su Netflix posso addirittura contrarre il tempo della puntata stessa, guardando il contenuto a velocità accelerata!”. “Lo spettatore è mutato assieme al prodotto perché il prodotto è mutato insieme al medium”, aggiunge Donghi. “Il ventenne di oggi molto spesso guarda le sue serie tv preferite senza nemmeno più ricorrere al televisore: laptop, tablet, smartphone delineano un mediascape del tutto rinnovato in cui ripensare drasticamente le dinamiche che regolano l’incontro tra soggetti e prodotti mediali”.

“Un discorso vecchio come la storia dell’audiovisivo è invece quello secondo cui le serie tv non apparterrebbero appieno alla cultura alta”, riprende Mariotti. “Spesso gli artisti arrivano prima degli intellettuali. Sorrentino, Guadagnino, Ammaniti, solo per citare il mondo seriale italiano, hanno prodotto serie pazzesche, in nulla inferiori a film o romanzi appartenenti alla cultura alta”. “Io peraltro non sono più nemmeno tanto sicuro che sia davvero così diffuso questo snobismo, se così vogliamo chiamarlo”, considera Donghi. “Permangono certo alcune resistenze, individuali più che di categoria, ma ricordiamoci che viviamo in un tempo (quasi sessant’anni dopo Apocalittici e integrati, che qualcosa in merito dovrebbe avercelo insegnato) in cui al MoMA di New York proiettano la terza stagione di Twin Peaks”.

Lo stesso vale per le differenze fra regia cinematografica e regia televisiva. “Spesso si ricorda come la regia televisiva, almeno fino a quella che Robert J. Thompson ha definito la seconda golden agefra anni Ottanta e Novanta, fosse considerata piuttosto piatta, monocorde e stereotipata”, continua Donghi. “Oggi invece nessuno studioso (o studente!) di television studies direbbe nulla del genere. Twin Peaks è Lynch così come Too Old to Die Young è Refn, come The Kingdom è von Trier, come The Knick è Soderbergh, eccetera. Queste serie sono estensioni dell’autorialità dei loro creatori, più che mondi altri in cui improvvisare scorribande stilistiche”.

“Il mondo delle serie tv si sta rivelando il luogo privilegiato per sperimentare e rischiare”, aggiunge Mariotti. “Ciò attrae decisamente gli artisti, che si ritrovano con molti meno condizionamenti. Nel cinema lo si fa sempre meno poiché le pressioni economiche sono diventate preponderanti (il che spiega il numero crescente di spin-off, reboot, prequel…). Nelle serie sembrerebbe più facile: un po’ perché il pubblico sembra più disposto ad accogliere gli esperimenti e a farsi sorprendere (altrimenti Squid game sarebbe inspiegabile), un po’ perché sia le tv sia le piattaforme streaming lavorano anche su operazioni di posizionamento e reputazione, che non mirano quindi necessariamente all’ascolto o al successo numerico in senso stretto.”

Infine, un tempo ci si chiedeva quale libro portarsi su un’isola deserta. Ora è inevitabile porre la stessa domanda sulle serie tv, consentendone addirittura due: una prima della svolta del 2000, una successiva. Per Mariotti, “fra quelle pre-2000 senza dubbio Lost: una delle esperienze di visione più coinvolgenti che ricordi e che avrei voglia di vedere all’infinito. Sulle serie di oggi direi Gomorra, la cui ultima stagione arriva il 19 novembre: è una delle vette più alte della serialità italiana per scrittura, profondità dei personaggi, valore produttivo. Un vero e proprio dramma shakespeariano tra le vele di Scampia”. “Prima del 2000 porto le prime tre stagioni di OZ, un prison drama HBO che personalmente trovo, insieme a I Soprano, l’epicentro della cosiddetta quality television”, risponde Donghi. “Rispetto al contemporaneo porto Anna di Ammaniti, miniserie originale Sky. Mentre la vedevo ricordo che, come encomio alla serie, tra me e me dicevo: ‘Ma davvero questo è un prodotto italiano?’. Speriamo solo che sull’isola ci sia una buona fibra!”.