Le parole di “Ragazzo italiano” – Una lettura del romanzo di Gian Arturo Ferrari

Le prime parole pronunciate da un personaggio di Romanzo italiano sono della nonna del protagonista, e culminano nel dialetto: “Dai Ninni, su, andiamo, andòm”. Le ultime provengono invece da una ragazza che accompagna il protagonista in Grecia e gli descrive così i tre giorni di libertà che ancora possono trascorrere lì prima di un futuro incerto, da universitari e ormai da adulti: “Quelli, Apollo non ce li può togliere”. Dal termine dialettale della prima pagina si arriva dunque al termine mitologico dell’ultima, e forse l’intero romanzo di Gian Arturo Ferrari può essere interpretato così: non solo il romanzo di formazione del protagonista, il ragazzo italiano eponimo, che dall’infanzia di provincia dell’immediato dopoguerra cresce fino alla maturità milanese negli anni del boom economico; ma anche un romanzo di formazione delle parole, che attraverso Ninni si evolvono, si fanno più sofisticate, crescono con lui e diventano parte integrante della sua vita e della sua identità.

Parla in dialetto anche la Colombani, la maestra di Ninni in prima elementare. Consegnandoglielo, addirittura, la mamma la scambia per una bidella, ovvero la colloca linguisticamente e socialmente un solo gradino sopra la classe più umile, ben raffigurata dai muratori che si profondevano in “suoni bergamaschi”, un linguaggio prearticolato nemmeno elevato alla dignità di parola. È la spia della limitatezza della maestra. La sua impostazione è solidamente classista: sistema nei primi banchi i figli degli industriali, sul fondo quelli che dovevano fermarsi a mangiare a scuola perché erano poveri, in mezzo la piccola borghesia; e i suoi voti tengono presente questa scansione, identificano la schiatta col merito. “Erano voti di affetto per i bambini della cerchia più familiare. Di riguardo per i figli delle persone più eminenti. Di disinteresse per quelli che non godevano di queste fortune. Questo semplificava le cose e faceva coincidere l’odine fisico con quello gerarchico-sociale e con quello di merito”. L’insegnamento della Colombani è in linea con questa miopia, al punto che il primo giorno di scuola viene dedicato alla posizione delle mani: mani in prima, cioè appoggiate sul banco; mani in seconda, conserte; mani in terza, dietro la schiena. A una cultura dialettale corrisponde un insegnamento meccanico, non dissimile da quello delle signorine che vigileranno su Ninni alla colonia marina: un quarto d’ora di sole a pancia in giù, un quarto d’ora di sole a pancia in su, dieci minuti immobili con l’acqua fino alla vita, poi altri due quarti d’ora di sole per asciugarsi, uno per lato. Andare al mare, come andare a scuola, si riduce a una lista di precetti vuoti a cui ottemperare, di parole imperative del tutto scollate dalla realtà dell’esistenza.

Il percorso di evoluzione del linguaggio di Ninni deve muoversi da queste secche. Parte come bambino tartagliante e solo alla fine delle elementari, col maestro Poli, apprende che non conta come si parla ma ciò che si dice. Per il maestro Poli non esistono classi sociali; o meglio, esistono ma le loro differenze vanno perequate da una scuola che sia in grado di preparare tutti alla stessa maniera, ovvero sia in grado di fornire a tutti parole adeguate. “Molti altri, lo so, non andranno da nessuna parte, a nessuna scuola”, dice agli alunni, “andranno a lavorare. In particolare per loro, faremo che la quarta e la quinta siano una specie di medie anticipate”. Il maestro Poli sa che l’insegnamento non deve concentrarsi sul contenuto ma sul metodo: “Di ogni cosa c’è un perché è, trovatone uno, ce n’è sempre dietro un altro e poi un altro e un altro ancora”. Sa che l’insegnamento non può esaurire la conoscenza – la catena dei perché è “lunghissima, forse infinita” – quindi interpreta il ruolo del maestro come traghettatore, non aguzzino. La compostezza delle mani, così come il difetto di pronuncia, non conta più.

È sempre lui a insegnare a Ninni che non sempre si deve “partire dalle cose e poi appenderci i pensieri, si poteva partire dai pensieri e poi appenderci le cose”. Questa, più o meno a metà romanzo, è la svolta riposta della trama: una rivoluzione copernicana che capovolge il rapporto fra la realtà e le parole (ovvero i pensieri considerati dall’esterno, oggettivizzati). Dopo quest’illuminazione, Ninni scrive il tema più bello della sua pur breve carriera scolastica; si distacca da tutto un mondo di scrittura di cliché retorici, come quelli custoditi nel repertorio di temi svolti che la nonna, affettuosa ma refrattaria al progresso, ci tiene a regalargli per aiutarlo. Idem con le poesie. Crescendo, man mano che gliele danno da imparare a memoria, Ninni ne solleva il velo e scopre che, di là dall’allenamento per “tonificare una sorta di muscolatura mentale”, può sentire dentro di sé “muoversi qualcosa, alcune immagini gli si erano fissate nella mente”. La realtà, tramite le parole, diventa parte integrante dell’identità di Ninni; e la sua identità, sempre tramite le parole, può intervenire sulla realtà, interpretarla, modificarla già solo con lo sguardo e la definizione.

Forse, sotterraneamente, questo cambiamento viene colto dal padre. Una sera, con una certa asprezza, impone al figlio di cambiare una parola fondamentale, il suo nome: “Basta, è ora di finirla, non si può affrontare la vita chiamandosi Ninni”. Al diminutivo preferisce l’originale, Pieraugusto, scritto tutto insieme perché l’impiegato dell’anagrafe (appartenente anche lui a una cultura intrinsecamente dialettale, che maneggiava la lingua con faticosa cura) non aveva abbastanza dimestichezza con le parole da capire che ci voleva uno spazio dopo il troncamento.

E i libri? Fanno la loro apparizione con delicatezza. Il percorso intellettuale di Ninni parte, in questo caso, dalle letture povere della mamma, appassionata di romanzi d’amore e di Annabella, per quanto nel rotocalco sfolgorassero le pagine di un peso massimo come Scerbanenco; e dall’assenza di titoli di studio del padre, che comunque era riuscito a ritagliarsi un rispettabile ruolo da impiegato. I libri, che Ninni scopre chiusi in bauli nei meandri della casa avita, più che un’eredità familiare sono la naturale evoluzione dei bambini immaginari che s’inventava per avere qualcuno con cui giocare durante le ore di solitudine, poi delle storie di cui s’immaginava protagonista prendendo spunto dalle più eclatanti sulla Domenica del Corriere, infine delle vite che si figurava dietro le finestre illuminate durante le corse in tram.

Il primo volume ad apparire nella sua vita, come sua proprietà, è un regalo dello zio per la cresima: L’apostolo del Rinascimento di Verano Magni, una rispettabilissima biografia di Savonarola che però costituisce una partenza col piede sbagliato. La vera scoperta è nei misteriosi bauli con dentro neglette le Meduse Mondadori, la Romantica mondiale Sonzogno, i libri d’avventura, i grandi romanzi ottocenteschi. Leggendoli nella penombra mentre la famiglia riposa dopopranzo, Ninni scopre il primato delle parole sulla realtà, sui fatti: “Si potevano raccontare anche i romanzi, quelli belli, ma non era lo stesso della storia, le cose più importanti – l’atmosfera e il taglio, il modo di vedere quel che succedeva – non si potevano raccontare, bisognava leggerli, non c’era niente da fare. Raccontati, i romanzi perdevano il meglio”. Quella dei libri è un’apparizione discreta ma decisiva, che segna la fine dell’infanzia e l’inizio della passione per il “gran pastone di parole”.

Dopo la lettura, arriva la scrittura. Nel senso proprio della grafia, un altro esempio di parole che determinano l’identità di Ninni. Da microscopiche, incomprensibili zampe di gallina il protagonista adolescente decide scientemente di passare ad ampie e chiare volute d’inchiostro, e si riconosce alfine in ciò che vede sulla pagina: “Quello era lui”. Il percorso si compie non molto dopo, grazie a un preside e a un professore illuminati, al liceo. Nella scuola viene allestita una biblioteca ideale, con molta narrativa contemporanea e senza limiti di prestito; gli vengono consigliati acquisti a portata delle tasche di tutti, come i Bur da settanta lire, che oggi costerebbero quattro euro all’incirca; gli viene consegnata una preziosissima tessera per assistere gratuitamente agli interventi di grandi scrittori durante i lunedì letterari di Milano. Ninni matura allora l’idea che di parole, di libri, potrebbe anche vivere.

Ecco, Milano; è la chiave di volta del romanzo di Gian Arturo Ferrari. I paesini d’origine di Ninni – Querciano in Emilia, Zanegrate in Lombardia – portano nomi immaginari, sono inesistenti perché sono ipotiposi, potrebbero incarnare qualsiasi paese con le stesse caratteristiche. Poi si passa attraverso Milano: una città-concetto, un nome che incarna un’idea che non coincide con nessuna delle proprie parti, tanto da dare “la sensazione che la vera Milano, scrigno di meraviglie, stesse da un’altra parte”, sempre irraggiungibile, indefinibile, sfuggente; “un posto complicato” in cui vivevano “quelli delle baracche con le candele e le pantegane, e a mezz’ora di tram, in case che non si potevano neanche immaginare, abitava gente che mangiava con venti posate d’argento a testa”. Milano è una coperta corta, una parola che non riesce a contenere la realtà che definisce. Infine, nelle ultime pagine del romanzo, durante il viaggio in Grecia il lettore assiste con Ninni a una sfilata di “nomi che avevano letto in decine di versioni e di autori, Cillene, Citerone, Elicona, Parnaso”. Sfilano le parole della cultura, le parole che hanno forgiato l’identità di Ninni e si fanno realtà, a conclusione di un percorso iniziato con la realtà che si faceva parola ed esortazione: andòm.  

Gian Arturo Ferrari, ghisleriano dal 1963, è Presidente della Fondazione Ghislieri. Fino a tutti gli anni Ottanta ha fatto convivere l’insegnamento universitario – come Professore di Storia del Pensiero Scientifico presso l’Università di Pavia – e l’attività editoriale. Abbandonata l’accademia nel 1989, in Mondadori è stato Direttore Libri nei primi anni Novanta e, dal 1997 al 2009, Direttore Generale della Divisione Libri. Dal 2010 al 2014 ha presieduto il Centro per il libro e la lettura, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Dal 2015 al 2018 è stato Vicepresidente di Mondadori Libri. Ha pubblicato il saggio Libro (Bollati Boringhieri, 2014).

Il suo primo romanzo, Ragazzo italiano (Feltrinelli, 2020), è attualmente semifinalista al Premio Strega, la cui cinquina sarà annunciata il 9 giugno in diretta streaming dalla Sala del Tempio di Adriano presso la Camera di Commercio di Roma, alle 18:30 sul sito del Premio e di Rai Cultura.