
“Era un manager di altissimo livello. La sua personalità professionale era imperniata sulla convinzione che bisognasse dire la verità, cosa molto poco frequente nel mondo manageriale, e andare subito al cuore dei problemi, direttamente e senza intermediazione. Per questo non era diplomatico; ma non era nemmeno politico, a differenza dell’atteggiamento abituale di molti capi di aziende. Sicuramente era un portato della sua formazione filosofica”.
Gian Arturo Ferrari, Presidente della Fondazione Ghislieri, ricorda così Franco Tatò, il nostro illustre Alunno scomparso pochi giorni fa. Parlando con Ghislieri.it, Ferrari rintraccia le radici delle convinzioni manageriali di Tatò proprio nella tesi di laurea su Max Weber: “Era rimasto un weberiano, convinto quindi che il compito delle aziende fosse di creare ricchezza. Riteneva che la conduzione di un’azienda fosse eminentemente razionale, e che bisognasse badare alla sostanza delle cose, ispirandosi a questa razionalità intrinseca, foss’anche in maniera brusca e decisa. Il nostro legame si è fondato proprio sul fatto che io ho imparato da lui la razionalità aziendale; in me però lui vedeva un frequentatore di quell’altro mondo – il mondo culturale – che andava tradotto in razionalità aziendale”.
Tatò era entrato in Ghislieri nel 1951, per seguire i corsi di Filosofia; Ferrari invece nel 1963, iscritto a Lettere classiche. Il loro incontro risale a una ventina d’anni dopo. “Non ci conoscevamo prima della sua esperienza in Mondadori”, racconta Ferrari. “Lui ci arrivò nel 1984, in una situazione molto complicata per la casa editrice, tecnicamente fallita in quanto gravata da debiti che superavano il suo valore, a seguito dell’acquisizione di Rete 4. Enrico Cuccia aveva allora fatto in modo, da un lato, di far liberare la Mondadori della rete televisiva, cedendola a Berlusconi; dall’altro di ristrutturare la casa editrice in modo tale che la proprietà, che era familiare, rientrasse entro la finanziaria Amef (Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria) di cui la famiglia deteneva la maggioranza e che a sua volta aveva la maggioranza della casa editrice. In questa maniera, con circa il 25%, la famiglia Mondadori manteneva comunque il controllo dell’azienda. Ma la famiglia era scissa in due rami di diverso orientamento: da una parte c’erano i Formenton, alleati con De Benedetti, entrato come socio nell’Amef; dall’altra Leonardo Formenton e sua madre Mimma, che preferivano Berlusconi.
“Tatò si trovava in questa situazione proprietaria molto complicata. Si impose però dicendo di voler badare esclusivamente a che l’azienda funzionasse, recuperando dalla sua precedente rovina riprendendo a fare profitti e a essere autonoma. Era anche del parere che l’azienda e la famiglia potessero mantenere la maggioranza della Mondadori senza ricorrere agli alleati esterni; su questa posizione però non venne seguito”.

All’arrivo di Tatò, Ferrari era ancora Professore di Storia del Pensiero Scientifico all’Università di Pavia, ma in Mondadori aveva assunto la direzione della saggistica; pochi anni dopo avrebbe abbandonato la carriera accademica in favore di quella editoriale, che lo avrebbe portato a fine anni Novanta al ruolo di Direttore della sezione libri dell’intera galassia Mondadori. “La prima volta vidi Tatò in un’assemblea di tutti i dirigenti della casa editrice – io formalmente non lo ero ma avevo un grado equiparato”, ricorda. “Ci fece un bellissimo discorso, dicendo che non era lì per ambizioni culturali (cosa probabilmente falsa) ma semplicemente per far funzionare l’azienda come doveva. Ancora una volta, emergeva la razionalità weberiana: nel caso specifico di Mondadori, era necessario trovare il modo che i libri funzionassero sia dal versante contenutistico sia da quello aziendale. Era ottobre e ci diede appuntamento di lì a poco per il budget, e fu proprio quando ci incontrammo in quell’occasione che, essendo venuto a sapere che ero ghisleriano, insisté perché ci dessimo subito del tu. Volle inaugurare un corso interno di economia e gestione aziendale per dirigenti, che si teneva al sabato e che mi consentì di apprendere tutti i rudimenti che ho poi messo in pratica. Da lì in poi, ci incontrammo diverse volte; ci capivamo”.
A Tatò si deve un netto cambio di prospettiva nel lavoro editoriale. “Non solo per i primi tagli, che arrivarono già dopo il primo ciclo di budget; una dirigente fu allontanata perché diede una risposta vaga alla domanda sul cashflow. Tatò era un uomo di infinite e appassionate letture, e aveva un rispetto assoluto per il mondo dell’editoria. Talvolta le nostre idee non collimavano: lui ad esempio aveva in mente il modello dell’editoria tedesca, che produce libri infinitamente più belli di quelli italiani – intendo proprio come oggetti – già solo per la carta su cui vengono stampati. Voleva che la Mondadori perseguisse questo modello ma io insistevo che non era affatto possibile, avendo l’editoria italiana un pubblico di lettori estremamente più piccolo rispetto a quello presente in Germania”.
“Il rapporto con me fu per un verso complicato e per l’altro facile”, aggiunge. “Io facevo un mestiere che a lui sarebbe piaciuto fare: quello che non aveva a che vedere con la razionalità aziendale ma riguardava la capacità di individuare il nuovo che si manifestava nel mondo, sotto varie forme di attività intellettuale. Da lui ho imparato moltissimo sugli aspetti aziendali; accanto a questi però c’erano quelli di contenuto, che riteneva una regione a sé stante grazie alla sua formazione umanistica. Anche io ritenevo che l’editoria fosse una categoria dello spirito a sé stante, non identificabile né nella cultura né nella politica; l’incontro con Tatò mi ha rafforzato in quest’idea a cui mi son sempre ispirato. Lui la spiega molto bene in un libro intervista scritto col nostro grande amico Giancarlo Bosetti, giornalista dell’Unità e fondatore di Reset. In A scopo di lucro afferma che l’editoria italiana (soprattutto quella quotidiana e periodica) era sempre stata condotta con criteri politici, quando invece doveva essere gestita in modo autonomo; quindi lo scopo di lucro era l’unica garanzia di indipendenza dalla politica”.
In Tatò, Ferrari riconosce molto della comune matrice ghisleriana: “Era una mosca bianca rispetto ai manager che c’erano all’epoca. Era un ghisleriano di antico stampo, cresciuto in una famiglia povera – suo padre era un pugliese, sottufficiale di carriera dell’esercito, mentre sua madre era lombarda –, e si era fatto strada esclusivamente con le proprie capacità. Un modello di ghisleriano perfetto; lui sì un caso di merito”. E, come nella tradizione ghisleriana, con un occhio di riguardo per il respiro internazionale: “Dopo l’università trascorse un periodo in America e questo viaggio fu fondamentale, poiché gli mostrò una società liberale fondata sui criteri che prediligeva. In Olivetti – dove fu assunto da neolaureato, a seguito di un colloquio con Adriano Olivetti in persona – governò a lungo un le filiali estere della ditta, in Austria, in Inghilterra, in Germania”.
Ferrari concorda sull’idea che il picco della vita professionale di Tatò sia stata la gestione dell’Enel, con la quotazione in borsa e l’invenzione di Wind: “Come manager non era assolutamente politico; per questo si trovò bene col governo Prodi, dove aveva come interlocutori il Presidente del Consiglio e il Ministro del Tesoro Ciampi, che condividevano entrambi la sua impostazione tecnica. In sostanza, Tatò riteneva che i capitalisti dovessero fare i capitalisti, limitandosi a badare al risultato della gestione dell’azienda senza esercitarla in prima persona; specie quando non ne erano i fondatori ma l’avevano ereditata. La gestione doveva essere affidata a manager professionisti come lui. Ciò gli ha causato non pochi attriti con le proprietà, che hanno costituito una costante della sua carriera. Accadde anche con De Benedetti, che lo allontanò dalla Olivetti in modo repentino.

“Anche Berlusconi, come De Benedetti, non amava molto i manager di professione. Se non che, quando decise di scendere in politica, nel 1993, la Fininvest era fortemente indebitata e le banche, apprese le intenzioni del Cavaliere, gli raccomandarono di farla amministrare da un manager. Tatò andò alla Fininvest per un accordo fra Berlusconi e le banche; risolse il problema del debito tramite la quotazione in borsa sia della capofila sia delle aziende che ne dipendevano. Berlusconi si trovò così di fronte a una personalità molto robusta, pronta a cambiare radicalmente la struttura della Fininvest, da sempre incentrata su Berlusconi stesso e sulla cerchia di fraterni amici che lo avevano accompagnato lungo tutta la sua ascesa. Non lo cacciarono ma, quando nel 1996 Prodi vinse le elezioni, Tatò accettò l’offerta governativa di passare a guidare l’Enel”.
“Eravamo molto amici”, conclude Ferrari ricordando i tanti momenti trascorsi insieme a Tatò e alla sua famiglia, a Milano o in vacanza, “e certo non parlavamo solo di affari. È stato un uomo straordinario, unico; la sua grande forza era la sua spietatezza nell’inseguire la verità. Ha sempre detto le cose come stavano, risultando notevole proprio per la sua così marcata differenza rispetto al mondo professionale che lo circondava; di tutti i manager che ho conosciuto in vita mia, non ho mai trovato nessuno altrettanto capace e risoluto. L’ultima volta che l’ho visto è stata quest’estate in Puglia, a Fasano, dove aveva comprato una masseria molto bella, piena di libri ovunque. Andato via dalla Mondadori, continuava a ricevere tutte le copie staffetta e io spesso gli dicevo di buttarne almeno alcuni, ma lui li conservava con devozione unica. Abbiamo festeggiato il suo novantesimo compleanno, con qualche settimana d’anticipo, e fra i regali che gli ho portato c’era anche una delle felpe rosse del Collegio. Fu felicissimo”.