Letture ghisleriane – 1967: la prima indagine sociologica sul Collegio

Il buon ritiro l'immagine sociologica del collegio ghislieri | 776

Chi erano Cristoforo Gallina, Giorgio Paciari, Cristoforo Romano e Bartolomeo Vita? I primi quattro giovani a potersi fregiare dell’appellativo di Alunni del Collegio Ghislieri, tutti di Bosco Marengo, ammessi a ridosso dell’emanazione della bolla di fondazione da parte del pontefice loro concittadino, San Pio V. I loro cinquemiladuecentosettantasette nomi inaugurano le oltre pagine di elenco certosinamente compilato da Eugenio Pennati a conclusione del suo saggio Il buon ritiro. L’immagine sociologica del Collegio Ghislieri (Morcelliana, 1967), pubblicato esattamente quattrocento anni dopo l’ingresso dei quattro pionieri collegiali.

Il buon ritiro è stato il primo saggio di sociologia storicistica apparso in Italia, così come viene orgogliosamente rivendicato in copertina, che in prospettiva diacronica racconta “l’evoluzione del Collegio Ghislieri da un sistema di autorità articolato, pluralista e relativamente autonomo, sostanzialmente bipolare come imperniato su protettori e compatroni oltre l’autorità interna del prefetto, a un sistema che, dopo la scossa liberale del primo tempo francese, si rende sempre più centralizzato, eteronomo e burocratizzato”, fino alla svolta post-unitaria, impressa dalla riforma di Francesco De Sanctis con “quel processo che, nel suo compiuto svolgimento, si può riassumere nella grande tetralogia: laicizzazione, meritocrazia, autonomia organizzativa e strutturale, missione filantropico-sociale”.

Il trattato mira fra l’altro a leggere il Ghislieri sotto prospettive sociologiche che vadano oltre l’immediata identificazione in convitto. Il Ghislieri di Pennati è organizzazione, struttura, gruppo, comunità e – soprattutto – “processo di autorealizzazione”. Lo spiega l’autore nelle pagine teoriche della propria analisi.

Il Ghislieri è una organizzazione in quanto “condotta prestabilita, che viene ordinata, gerarchizzata, centralizzata in base a certi modelli pensati e fissati anticipatamente in schemi più o meno rigidi” ed è una struttura (come “la società capitalistica e quella comunista” oppure “dalla famiglia di vario tipo alla tribù, dal partito al sindacato”, eccetera) in quanto “è stato lo specchio rifrangente della società del suo tempo e si è trasformato simmetricamente al trasformarsi della società in cui era immerso”. È gruppo in quanto “il giovane accoglie cento influssi, alcuni avvertiti ed altri inconsapevoli, ma non meno essenziali” facendo parte di quella che Horkheimer e Adorno avrebbero definito “istanza intermedia”, ovvero “una società circoscritta e omogenea rispetto alla complessa società globale” che “implica la convivenza di un numero ottimale di allievi ma preesiste a ognuno di essi e prosegue durevolmente: gl’individui passano, l’istituzione resta”. Ed è una comunità, intesa come grado intermedio del “risultato della fusione degli io e degli altri”, i cui poli opposti sono “massa” e “comunione”. Argomenta Pennati: “La comunità, rappresentando il termine medio della fusione parziale di un noi, mostra la tendenza a conservarsi e a perdurare più della massa, in cui le forze centrifughe minacciano sempre la dissoluzione, e più della comunione, che rappresenta un grado di autosuperamento non facile a raggiungersi e a mantenersi”.

La definizione che però sembra più calzante agli occhi di Pennati è quella del Ghislieri come “fenomeno sociale totale”. “Come la struttura è più ricca e comprensiva dell’organizzazione”, spiega, “così la totalità sociale lo è rispetto alla struttura. Ecco perché il Collegio – nostro costante punto di riferimento – rappresenta, nel pensiero e nel sentimento dei suoi Alunni, che qui si sono temprati e hanno ricevuto la carica per la vita, una realtà, la cui pienezza supera la sua obbiettiva struttura, che a sua valica lo schema organizzativo”. Per questo “il Ghislieri per i Ghisleriani è un’esperienza inespressa e forse inesprimibile, che i pallidi schemi organizzativi e strutturali sono impari a rendere nella sua calda interiorità”.  E ancora: “Persona giuridica, con le guarentige conferite dal nostro ordinamento, il Ghislieri ha pure acquistato nell’animo dei suoi figli intellettuali una personalità morale. Il Collegio vive nelle memorie come ente a sé, che noi sappiamo trascendere le ondate susseguentisi degli allievi”.

Se agli occhi di Pennati il Ghislieri sembra avere alcuni aspetti delle primitive “comunità di mensa” – ma per fortuna “ogni residuo tabuistico è estraneo al festoso refettorio ghisleriano” – è soprattutto però “una comunità di cultura in senso ampio”: non nel senso di “una pluralità che unisca i suoi sforzi per raggiungere un unico intento scientifico” né di “comunanza di un unico patrimonio culturale, perché quante sono le facoltà, altrettanti sono i tipi culturali”. Invece, specifica, “gli Alunni integrano una comunità di cultura in senso ampio, come atmosfera di educazione (rispettare per essere rispettati), di formazione della personalità nel discorso a più voci, che si svolge ogni giorno, e nello scambio informativo”.

Questa è la luce sotto cui vanno lette le cospicue tabelle con cui Pennati correda il suo ormai classico studio: un tentativo di tradurre in numeri l’impatto sociale di questo fenomeno che, dal 1567 al 1967 (e fino a oggi, possiamo aggiungere) ha selezionato una piccola fetta di studenti universitari allo scopo di consentire loro di autorelizzarsi di volta in volta secondo le esigenze specifiche del tempo.

Pennati pubblica Il buon ritiro in un momento di profonda trasformazione del Ghislieri. Già il numero degli ammessi, che per un buon decennio si era assestato sulla ventina di matricole annue – fa tremare i polsi quell’unico studente che risulta ammesso in piena guerra, nel 1942, il milanese Giancarlo Dehò – nel 1965 ha visto 36 ingressi e ben 56 nell’anno successivo. È il momento in cui viene istituita una sezione femminile, oggi pienamente fusa nel Collegio, che rende il Ghislieri il primo collegio universitario misto d’Italia. Nel censimento stilato da Pennati, al 1965, appaiono i primi nomi di donna (Umberta Biasioli, Alida Finzi, Lidia Larizza, Luisa Magrini, Ombretta Marucchi, Maria Lodovica Vailati); e, se i primi quattro ghisleriani erano tutti boschensi come il fondatore, le sei pioniere provengono da Pavia, da Piacenza (due), da Manerbio, da Verona e da Recanati.

Alla progressiva nazionalizzazione degli ingressi fa fronte una trasformazione del ceto di provenienza. Se duecento anni fa molti erano i figli di magistrati e ben 89 Alunni, nel periodo risorgimentale, avevano un padre che poteva permettersi di non lavorare in quanto censito come benestante, nel secondo dopoguerra un’ampia maggioranza arride ai figli di impiegati del settore privato, in quantità tripla rispetto ai figli di impiegati nel pubblico, medici e insegnanti. Idem Pennati mostra l’evolversi dell’identikit scientifico del ghisleriano: per lo più giurista nei primi tre secoli di storia, con un picco di oltre uno su due negli anni del Risorgimento; poi matematico, in un sorprendente 31% dei casi, negli anni che conducono alla Grande guerra; medico fra le due guerre, con un cospicuo incremento degli ingegneri fino ai tempi di pubblicazione del trattato. I milanesi tendono a iscriversi a Fisica, mentre molte matricole di Lettere e Filosofia provengono da Sondrio.

Ciò che soprattutto emerge dall’analisi di Pennati è che, nei quattro secoli che contempla, il Ghislieri è stato un grande perequatore sociale. Ha consentito di laurearsi a figli di contadini e disoccupati, mentre un 50% dei figli di benestanti ha finito per decadere, senza mai portare a compimento gli studi. Ha formato non solo un 15% di professori universitari e altrettanti medici, ma anche un 12% di dirigenti industriali e di impiegati fra privato e pubblico, e poi avvocati, ingegneri, insegnanti, industriali, magistrati… (l’unica voce a riportare uno zero è la professione “artista”). Lo ha fatto, conclude Pennati, anche grazie a una caratteristica tutta ghisleriana, o quanto meno propria della sua particolare struttura sociale: il brainstorming.

“Il gruppo ha una potenza creativa, producendo ciò che i singoli non sanno? Il tutto supera la somma degli addendi, esprimendo un quid novi et pluris? Una comunità tipicamente culturale, come quella del Collegio universitario, non è estranea coi suoi sottogruppi, a fenomeni di brainsstorming, nel senso di alimentare un flusso eccezionale e quotidiano di notizie e di concetti, che ognuno ascolta o esprime liberamente, senza inibizioni alla creatività”, scrive. “Il tiro incrociato del brainstorming accresce il capitale d’informazione, di immaginazione e di creatività, sia che si ricavino da una percezione altre immagini e altre idee per mezzo di un processo associativo, sia che ciò avvenga per contrasto. Così ogni membro della collettività, sia tra i più attivi, sia tra coloro in cui prevalgono atteggiamenti ricettivi, si trova al centro di una rete di comunicazioni e partecipe di un sistema interattivo, che nutre e stimola l’individualità”.

Ormai classico della sociologia, Il buon ritiro di Eugenio Pennati ha avuto come unica edizione quella per Morcelliana del 1967, ma è facilmente rintracciabile nelle biblioteche (fra cui, ovviamente, quella del Collegio Ghislieri di Pavia). Precedenti puntate di “Letture ghisleriane” sono state dedicate alla Liberazione del Collegio dai soldati tedeschi nel 1945, alle prime conseguenze degli episodi di rivolta in Collegio a fine Ottocento e al tentativo da parte degli Alunni in corso di trasformare il posto in Collegio in fruizione di una borsa di studio nel 1890, ai ricordi del concorso di ammissione nel 1947, ai valori storici del Collegio in un breve scritto di Pietro Ciapessoni, all’omonimo Collegio Ghislieri di Roma, a come i temari scolastici di fine Ottocento raccontavano gli anni trascorsi da Carlo Goldoni in Ghislieri, al viaggio di un Alunno nel Carso appena finita la Prima Guerra Mondiale e al regolamento del Ghislieri sotto Umberto I di Savoia.