
È Professore associato in Bocconi, istituzione faro delle scienze sociali, dove si occupa di Management del settore sanitario. Ma – partecipando al “Progetto testimonianze” che mette in contatto vecchi e nuovi ghisleriani – la nostra Alunna Amelia Compagni si è raccontata partendo dalla sua formazione universitaria in un campo del tutto differente: nel 1995, infatti, si era laureata in Scienze biologiche.
“Ero venuta in Collegio per studiare Scienze Biologiche perché l’università di Pavia ha un centro per la genetica importantissimo, di lunghissima tradizione”, racconta la prof. Compagni a Ghislieri.it. “Pavia era un posto di eccellenza già negli anni Novanta per studiare la frontiera della ricerca delle scienze naturali, ossia quella della biologia molecolare e della genetica. E infatti ciò che mi ha sempre mosso, nella ricerca, è stato cercare di trovare posti di eccellenza, tanto in Italia e in Europa. Credo che ricerca meriti di essere fatta soltanto a livello elevato, e in fondo nella mentalità del ricercatore inevitabilmente c’è una tendenza a essere girovaghi. Per questo sono andata sempre in posti dove pensavo di poter fare il massimo”.
Da Pavia la prof. Compagni aveva poi proseguito nel campo, svolgendo un dottorato in genetica a Vienna, presso l’Institute of Molecular Pathology, e quindi con un post-doc in genetica dello sviluppo al Cancer Research UK di Londra. “È stato un percorso bellissimo”, ricorda. “La ricerca nel campo delle scienze della vita insegna molte cose: la logicità delle procedure, la capacità di coordinare altre persone, e anche il fallimento. Non solo dal punto di vista materiale ma anche intellettuale, perché magari il tuo pensiero può dimostrarsi fallace. Si tratta di una grande palestra per abituarsi a come si può ricrescere e risorgere e, inoltre, dà una grande possibilità: capire cosa vuol dire scoperta. È una cosa rara; a me è capitato di vedere qualcosa che era già presente in natura e che prima non riuscivamo a vedere. Poter vivere questi momenti, direi quasi di illuminazione, è un aspetto che trovo estremamente galvanizzante”.
A trentaquattro anni la svolta, con la decisione di passare dalle scienze della vita alle scienze sociali. “Dopo avere inteso cosa vuol dire fare ricerca, e che tipo di percorso comporta (nei suoi lati positivi e negativi, come ad esempio la settorialità e l’isolamento) ho pensato di espandere i miei orizzonti, imparare cose nuove e soprattutto riavvicinarmi alle persone, attraverso una ricerca in ambito sociale”, spiega. “La scelta di cambiare è maturata mentre facevo il postdoc a Londra, dove ho avuto più possibilità di mettermi a confronto col mondo che utilizza ciò che deriva dalla scienza. Ero molto più a contatto con chi traduceva la conoscenza in terapia, con i pazienti, con le persone guarite; non mi trovavo più nella torre d’avorio dell’università”. A sospingerla è stata il fatto che “non mi bastava l’idea di sentirmi in diritto di concentrarmi esclusivamente sulla ricerca migliore che potessi produrre in laboratorio. Mi ha sempre dato grande gioia il comunicare, il vedere cosa accadeva di ciò che facevo, perché attorno alla scienza c’è una enorme macchina organizzativa. Senza di essa la scienza non potrebbe avere alcun vero impatto sulla nostra vita”.
“Ho pensato che potessi fare di questo il mio passo ulteriore, invertendo le priorità della mia professione: rendere il nocciolo di ciò che faccio non più la scienza ma il contrario, quello che si fa con la cosa che ho prodotto”, continua. “Quindi ho dovuto non solo chiudere la fase precedente della mia vita ma anche pensare di rimettermi a studiare e, prima ancora, considerare molto attentamente alle cose che avevo imparato e riconsiderarlo. Da lì sono passata a fare un master in Bocconi in ambito sanitario, che mi è parso il ponte migliore per partire dalle mie conoscenze e cominciare a guardare in modo più professionale al mondo della comunicazione della scienza alla società, attraverso il settore sanitario”.
È stato un salto nel vuoto? La prof. Compagni risponde di sì, ma si dichiara molto contenta di averne avuto il coraggio: “Dopo il master sono andata negli Stati Uniti a vedere come funzionava il loro ministero, ho ideato nuovi progetti che ho portato avanti successivamente; ho potuto subito mettere in pratica ciò che stavo imparando e ciò mi ha dato entusiasmo riguardo al fatto che potessi farcela. Ammetto che non mi mancavano i dubbi, e mi domandavo: riuscirò a trasformarmi cambiando lavoro o verrò rigettata? In fin dei conti avevo fatto ciò che in biologia si chiama creare un ibrido: un ibrido in me stessa, fra le scienze naturali e le scienze sociali, ben sapendo che gli ibridi o presentano qualche vantaggio o vengono selezionati contro, respinti dal sistema”.
Questo passaggio fuori dal comune è stato favorito dalla permeabilità del settore sanitario: “Si tratta di un ambito in cui ci sono persone di vari settori disciplinari: tutte interessate alla stessa cosa, ma tutte capaci di guardarla attraverso lenti diverse. È una contaminazione in cui ci si riesce a ritrovare e, forse, è il mondo in cui è più semplice fare questo tipo di transizione. Progressivamente mi sono costruita, imbastendo qualcosa di diverso e personale rispetto a ciò che poteva magari fare chi ha un profilo più lineare. Spesso essere cresciuti nella stessa disciplina rende più difficile osservarla con distacco; talvolta sapere troppo di quello che hanno fatto gli altri nel proprio settore può finire addirittura per risultare paralizzante. Paradossalmente, sapendo che in partenza ero di sicuro inadeguata al mondo a cui mi affacciavo, ho potuto nutrire una maggiore freschezza di pensiero e ho cercato di volgerla a mio vantaggio, ben consapevole di trovarmi all’interno di un mondo che ha le sue regole, le sue caratteristiche disciplinari, le sue strategie epistemologiche con cui ho dovuto rigorosamente confrontarmi”.
Il passaggio si è concluso felicemente, con l’inserimento nel mondo della sanità grazie al CeRGAS, un centro di ricerca sociologica sulla sanità attivo in Bocconi già dal 1978, più o meno da quando è stato creato il Sistema sanitario nazionale. Concorrere a una posizione professionale interna, confrontandosi con persone che provenivano da quel settore, ha consentito alla prof. Compagni di mettersi alla prova e scoprire di avere fatto la scelta giusta: era pronta per il nuovo mondo a cui si affacciava; l’ibrido aveva funzionato.
“Io provengo da una famiglia umile, in cui sono la prima laureata: i miei genitori mi hanno sempre incoraggiato ma non avevano strumenti per guidarmi. È stato studiare in Ghislieri a darmi quel senso di autoconsapevolezza, di libertà di esplorare, di incuriosirmi a tante cose, di prendere qualcosa qua e là”, conclude. “Il Ghislieri è una specie di agorà in cui si dibatte di cose diverse. Ma non è stata solo questa possibilità di contaminazione che ho portato con me dal Collegio, questa possibilità di parlare di cose diverse; è stata l’impressione che in fondo si può entrare nel mondo di un altro, lo si può comprendere, si può essere spregiudicati e spavaldi nel voler acquisire nuova conoscenza. In questo l’ambiente del Collegio mi ha sempre dato molto coraggio; ed è fondamentale perché, se si vuole cambiare la propria strada, bisogna imparare ad avere poca paura”.
Amelia Compagni, ghisleriana dal 1990, è Professore associato presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche dell’Università “Bocconi” di Milano, dove insegna Analisi del settore sanitario, Management of government organizations e Foundations of management in health care organizations. Inizialmente formatasi con una laurea in Scienze biologiche a Pavia, a partire dal 1995 ha effettuato periodi di ricerca presso l’Institute of Molecular Pathology di Vienna e il Cancer Research UK di Londra. Successivamente, con un Master of Science in International Healthcare Management, Economics and Policy sostenuto in Bocconi, ha intrapreso la carriera nelle scienze sociali, conseguendo decine di pubblicazioni nel settore e diventando Professore associato nel 2015. Dal 2018 è Direttore World Bachelor in Business presso la Bocconi; nello stesso anno ha ricevuto il premio ABCD (Above and Beyond the Call of Duty award) con cui l’accademia di management OMT riconosce attività particolarmente “altruiste, impegnate, estensive e profonde”.