È un monumento alla Divina Commedia, la rara e preziosa edizione illustrata da Amos Nattini (1892-1985) presente nella Sala Rossa del Rettorato del Collegio Ghislieri.

Già illustratore di d’Annunzio, Nattini inizia a progettare durante la Prima Guerra Mondiale le cosiddette “imagini”: cento litografie dedicate al capolavoro. Le prime tre – una per cantica –vengono esposte nel 1915 alla Permanente di Milano. L’incarico ufficiale arriva però solo nel 1921, in occasione dello scorso centenario dantesco, su commissione dell’Istituto Nazionale Dantesco di Milano. Il lavoro assorbe pressoché totalmente Nattini, che vi dedica vent’anni della propria vita. L’Inferno viene pubblicato dieci anni dopo: “Nel segno dell’Aquila e della Croce”, recita la copia ghisleriana, “a istanza di Rino Valdameri / le officine dell’Istituto Nazionale Dantesco / hanno finito di stampare / la prima cantica della Divina Commedia / in Milano l’anno 1931 IX”. Il Purgatorio segue nel 1936 e il Paradiso nel 1941.

Di là dalle mille copie numerate, il risultato del lavoro di Nattini viene mostrato al pubblico in successive mostre nelle principali piazze italiane e francesi, culminanti nella mostra del 1927 presso la Casa di Dante in Roma, alla presenza di Vittorio Emanuele III.

La copia custodita in Collegio attualmente espone l’Inferno, con un interno copertina in tela con uno stemma su cui campeggia, nella prima cantica, Vexilla Regis prodeunt Inferni; il volume si apre con la dicitura Incipit Comedia / Dantis Alagherii Florentini Natione / Non Moribus. Ogni canto è stampato su due pagine (solo recto), divise su due colonne incorniciate e separate da un motivo geometrico. Le litografie di Nattini seguono ciascun canto.

L’oscurità degli spiriti è una costante su cui Nattini fa leva lungo tutto l’Inferno, lasciando trapelare per contrasto luci troppo tenui o che si stagliano all’orizzonte talmente lontano da risultare irrimediabilmente irraggiungibili. Una di queste luci è Virgilio, con la sua tunica chiara, quasi sempre ritratto in posizioni marginali. Paolo e Francesca sono invece appena illuminati da una luce fioca in una torma di spiriti oscuri. In questo buio diffuso si stagliano gli sguardi disperati, le smorfie drammatiche dei dannati.

Man mano che si discende i colori si fanno più accesi, irrompe il roso, in cui le anime vengono calate smarrendosi. È lì che la luce si fa fuoco, illuminando la pagina solo per scendere a tormentare i corpi dei dannati. Allo stesso modo, da metà cantica, diventa ossessivamente presente il nudo: ma si fa mero accumulo di corpi, che vengono presentati prima accalcati, poi riversi, capovolti (impressionante un Caifa scheletrico, alter Christus a rovescio), accatastati e progressivamente privati di umanità – fino all’essere annichiliti nei tre grandi dannati che si scorgono appena fra le fauci dell’imponente Satana.

L’esemplare presente in Ghislieri è il numero ottocentocinquantasei, “stampato per Francesco Cesare Griffa”, ma arrivato in Collegio grazie al generoso lascito del dottor Gino Quirici (1895-1966).