Tra Dante e Napoleone – L’“Inferno” di Carlo Porta curato da Pietro Gibellini

L'Inferno di Dante riscritto in Milanese, Carlo Porta - Libri di poesia in  dialetto di Interlinea edizioni

“L’allegria è un filo che, pur variando di colore e misura, cuce le poesie portiane facendone un compatto organismo”, spiega il nostro Alunno prof. Pietro Gibellini nel suo saggio introduttivo a L’Inferno di Dante riscritto in Milanese di Carlo Porta, appena uscito in libreria grazie alle edizioni Interlinea.

Si tratta di una traduzione della prima cantica della Divina Commedia effettuata dal Porta fra il 1801 e il 1805, poco dopo essere rientrato a Venezia dove il padre lo aveva spedito per sottrarlo all’invasione di Milano da parte delle truppe russe impegnate contro la Repubblica Cisalpina. Il contesto in cui Porta intraprende il proprio corpo a corpo con il classico supremo della letteratura italiana è dunque pienamente napoleonico, dominato da rinnovamento e trasformazione.

Non sono tuttavia soltanto né le ragioni biografiche né l’atmosfera storica a spingere “Carlo Porta poetta Ambrosiann” a sottoporre il testo dantesco alla “scoeura de lengua del Verzee”. La traduzione del Porta giunge pochi decenni dopo che il Parini aveva difeso la dignità del dialetto – non solo il milanese, qualsiasi dialetto – argomentando che le lingue “sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro”. L’intento del Porta venticinquenne è dunque lo stesso che percorre l’intera sua produzione e che esprimerà compiutamente da adulto in una celebre lettera al figlio riportata da Gibellini: “Provare se il dialetto nostro poteva esso pure far mostra di alcune di quelle veneri, che furono fin or credute intangibile patrimonio di linguaggi più generali ed accetti”. E in questo primo tentativo possono venire rintracciate le radici delle più celebri produzioni successive: “Dante Isella, maestro degli studi portiani, non mancò di cogliere nella viltà mostrata dal mistico pellegrino nel secondo canto un embrione della paura spacciata per prudenza da Giovannin Bongee, e nel linguaggio franco con cui Francesca da Rimini narra la sua sensuale e sventurata passione un presagio del monologo di Ninetta del Verzee”, nota Gibellini.

A ciò si aggiunge il fascino di una sfida intentata. “Le versioni dialettali della Commedia spunteranno assai fitte nell’Ottocento risorgimentale”, spiega Gibellini, “la stagione che più d’ogni altra contribuì a costruire l’icona monumentale dell’Alighieri quale padre della lingua e profeta dell’unità italiana. Non stupisce che, nella prima versione integrale dell’Inferno in milanese (1860), Francesco Candiani associ Dante a Garibaldi e associ Cangrande a Vittorio Emanuele. Le versioni vernacole si moltiplicheranno nella stagione verista, quando la conseguita unità della nazione stimola, per una spinta più spesso integrativa che alternativa, la riflessione sulle piccole patrie e sui loro idiomi, variopinte pezze del vestito di Arlecchino completato da un manto tricolore”. Quando però Porta si accinge alla traduzione, le versioni dialettali di Dante mancano.

A inizio Ottocento infatti i classici più tradotti nei dialetti erano Ariosto, Tasso e l’oggi dimenticato – ma allora solido bestseller – Pastor fido del Guarini. Carlo Porta è il primo a tentare la traduzione milanese di Dante, benché frammentaria: dei canti originari, la traduzione contempla completo il primo, quasi completi II, V e VII, poi frammenti del III, IV, VIII, IXe XI, mentre sono assenti il X e tutti i seguenti.

Gibellini ravvisa il precedente di riferimento del Porta nella Gerusalemme liberata tradotta da Domenico Balestrieri tra 1743 e 1758; probabilmente per questo Porta traduce le terzine di Dante in ottave. Porta tuttavia non si limita a una riscrittura termini quantitativi (i 136 versi del primo canto vengono dilatati in 184) ma opera un netto spostamento dell’asse dell’Inferno, una forse inevitabile trasposizione in contesto popolare. A titolo di esempio, Gibellini menziona la celebre terzina in cui Virgilio dichiara: “Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia, / poi che ’l superbo Ilïón fu combusto”. Il Porta la trasfigura nell’autobiografia di un cantastorie, autore di una bosinata: “Voett de pù?… Te diroo ch’hoo faa el bosin / e che hoo scritt on poemma, ma sul sciall, / sora Eneja e el foeugh d’Illi in vers latin, / e te diroo che voreva anche brusall / per ghignon de no avell faa in meneghin”.

Pietro Gibellini¸ ghisleriano dal 1964, ha contribuito alla ricerca sulla letteratura italiana spaziando dal Medioevo al Novecento con grande autorevolezza e duttilità. Già Professore ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, al momento è Presidente del comitato scientifico dell’Edizione nazionale delle opere di Gabriele d’Annunzio, nonché direttore delle riviste “Ermeneutica letteraria”, “Letteratura e dialetti” e “Archivio d’Annunzio”. Oltre a d’Annunzio e alla poesia dialettale dell’Otto e Novecento, nel suo campo di ricerca sono rientrati Parini, Manzoni e Gadda. Da alcuni anni si occupa del mito classico nella letteratura italiana, entro cui si inscrive la sua ricerca su Bibbia e letteratura; e al momento attende a una nuova edizione critica e commentata dei Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli per i Meridiani Mondadori. Fra le sue tante pubblicazioni ricordiamo Verga, Pirandello e altri siciliani (Milella, 2011), La parabola di Renzo e Lucia: un’idea dei Promessi Sposi (Morcelliana, 1994), Logos e mythos. Studi su Gabriele d’Annunzio (Olschki, 1985), La Bibbia del Belli (Adelphi, 1974) e soprattutto l’edizione critica di tutti i Sonetti di Giuseppe Gioachino Belli in quattro volumi (Einaudi, 2018). Nel 2020 ha vinto il Premio Sapegno.