Al mattino dell’8 giugno 1919 il generale del Comando Divisionale di Maniago, in Friuli, apprende che alcuni ufficiali suoi sottoposti non hanno mai visto Trieste. Non trattiene la meraviglia ed esclama: “Ma hanno il diritto di vederla dopo quattro anni di guerra! Hanno il dovere di conoscerla! Si mettano insieme in tre o quattro ufficiali, stabiliscano un giorno e vadano; metto a loro disposizione l’automobile 15 Ter e… si divertano!”. Alla fine si organizzano in quattro: il Capo di stato maggiore, colonello Pelagatti, il colonello Barboni, il capitano di commissariato, tal Nardi, e un nostro Alunno, il maggiore Lodovico Castelnovi: che a quell’avventuroso viaggio attraverso il Carso dedicherà un lungo scritto destinato a restare privato per poco più di un secolo. Si tratta di una straordinaria testimonianza in diretta di un’Italia di confine – “semo in Italia e in fior de Italia”, gli dirà incerta la commessa di una libreria triestina – che reca ancora profondissime le ferite della Grande Guerra.
Camuno di Cividate, Lodovico Castelnovi era entrato al Collegio Ghislieri nel 1896 per gli studi di Medicina. Si era laureato nel 1902, quando il Rettore dell’Università di Pavia era tornato a essere Camillo Golgi; assieme a lui si era laureato, compagno di facoltà e di Collegio, il futuro padre Agostino Gemelli, che nel 1921 avrebbe fondato l’Università Cattolica. Proprio nello stesso anno, invece, avrebbe trovato la morte improvvisa Castelnovi, a soli quarantatre anni, dopo una carriera brillantissima nel campo della sanità militare: dapprima a Rodi e in Libia durante la guerra giolittiana contro l’Impero Ottomano; quindi nel Reparto Someggiato della V Sezione di Sanità durante la Prima guerra mondiale, che lo vide prendere parte a numerose azioni sul Tonale, sull’Adamello e sul Corno di Cavento, prima di passare a ruoli dirigenziali e, quindi, approdare al Comando Divisionale, prima a Maniago, poi a Udine. Per un breve periodo fu anche sindaco della nativa Cividate Camuno e direttore dell’Ospedale Militare di Brescia.
“Sono stato parecchie volte in automobile”, scrive, “mi piace anche andare di buon passo, non mi lascio impressionare facilmente, ma mi pareva, in complesso che si corresse un po’ troppo. I filari della campagna, gli alberi, i canali sfuggivano indietro con una velocità spaventosa; sullo stradone lungo, largo, diritto, un piccolo punto nero che appena si vedeva in distanza ingrossa rapidamente: è un carro di fieno, sembra che s’avventi su di noi, scompare. I campanili dei paesetti seminati qua e là per la campagna si succedono l’uno all’altro di minuto in minuto; i profili delle colline, di faccia, e delle Alpi, sulla sinistra, variano, cambiano, si mutano ad ogni istante. Nelle orecchie c’è un vento che è quasi un fischio”.
Passano per Fanna, Cavasso, Sequals, Spilimbergo. Superano il Tagliamento (“questi fiumi del Friuli sono tutti eguali”), raggiungono Codroipo e prendono il rettifilo per Udine, fino a Campoformio, “ove quel genio ambizioso e brigantesco di Napoleone vendette la Venezia all’Austria”. Man mano, i combattenti riconoscono i teatri di guerra: “Vede quel monte a nord-est di Udine? È il Monte Nero, ove han vinto gli alpini; è già oltre l’Isonzo”. Partiti alle sei del mattino, alle sette e mezza sono già a Udine: 75 chilometri in novanta minuti, ritmo molto sostenuto per l’epoca. Il colonello Pelagatti riconosce “un portichetto sotto il quale si era ricoverato per mezz’ora il 27 ottobre 1917 per ripararsi dalla pioggia. Fuggiva davanti alla valanga di Caporetto, non aveva mangiato da due giorni; aveva sete, chiese da bere a due soldati che gli offrirono una bottiglia di Strega di dubbia provenienza”. Di lì a poco sono allo Iudrio, “l’antico confine”, “un fiumicello grande come metà Oglio, forse meno”, sulle cui sponde c’erano “qui la garitta della Guardia di Finanza nostra, là quella austriaca”. Il ponte reca ancora i colori imperiali, giallo e nero.
Dopo Cormons, vedono stagliarsi il Monte Sabotino, “che mostra ancora sulla creta la linea bianca delle trincee” e, di fronte all’automobile, il Podgora, che “sembra una collinetta da nulla, eppure era terribile per le sue insidie, per le sue caverne, per le sue mitragliatrici, appostate ad ogni svolta, ad ogni macigno”. A sud del monte c’è Lucinico, paesino che trovano “tutto diroccato e sventrato. Di ogni casa rimane in piede forse sì o no una muraglia maestra o due; pure la chiesa è sforacchiata in ogni senso, così da far l’effetto di un grande baraccone di esposizione in rovina. Gli abitanti vivono ora in baracche di legno improvvisate, qualcuno si vede sbucare da qualche cantina”. E poi Gorizia, i ponti crollati dell’Isonzo, i primi gradini del Carso… “Ad ogni nome si collega un episodio di sangue, di dolore, di gloria”.
A Savogna chiedono indicazioni a una famiglia contadina slava, fra incomprensioni, diffidenze e strascichi di timori reciproci. Attraversano Rubbia e lambiscono le pendici del Nad Logem, dove scorgono “due o tre cimiteri militari circondati da uno steccato, con dei cancelletti improvvisati, con centinaia e centinaia di crocette in legno, basse, tutte eguali, ognuna in testa a un piccolo tumulo rosso-bruno, in file perfettamente allineate come battaglioni in parata. Qua e là qualche croce più alta o monumentino in cemento armato segnava la tomba di un ufficiale o di un soldato più caro ai compagni o distintosi per atti di valore”; fosse comuni italiane, fosse comuni austriache e, forse ancora più lugubre, un accampamento rimasto abbandonato per anni, probabilmente da soldati italiani dopo Caporetto.
“Si vedevano sparse tra i radi fili d’erba cartucce, giberne, borracce, elmi”, scrive Castelnovi. “Più in là vi erano delle cassette di cottura aperte, piene d’acqua piovana; vi erano pentole arrugginite, fornelli reggipentole, teli da tenda, pezze da piedi, baracchette cascanti, tascapani vuoti, travi, lamiere. Nella scarpata del monte tratto tratto si aprivano delle piccole caverne, ove più numerose erano le vestigia lasciate dalla truppa, perché più concentrata ivi era stata la vita: anche qui lettere, cartoline, scatole di carne vuote, scarpe. In una cavernetta dal terriccio rosso sporgeva una scarpa con la suola per aria, con la chiodatura completa; come, pensai, anche le scarpe nuove hanno abbandonato? Cercai di smuoverla col piede, ma resisté al mio sforzo; la scarpa si continuava con una gamba che scompariva nel terreno. Chi era l’infelice sepolto lì dentro? Forse dormiva, stanco della marcia, forse stanco della lotta furibonda si era rifugiato là per avere un momento di riposo e il terriccio rosso franando l’aveva coperto, mentre i compagni erano riusciti a fuggire”.
In discesa lungo le dolci colline del Carso, l’automobile sotto il sole ormai alto passa da Visintini, Oppacchiasella, Iamiano, Doberdò, ancora fra resti di trincea, rottami, fili spinati, cavalli di Frisia, e mucchi di rovine che un tempo erano paesini. Da una grande baracca vedono uscire “bambini, maschi e femmine, quasi tutti scalzi, con qualche quaderno sdrucito sotto il braccio, avidi di correre e di giocare, di gridare”: era la scuola. Dopo l’Hermada raggiungono Gorjansko, Nabresina, poi Gabrovizza, Prosecco, San Pelagio; incontrano case isolate e, sulla soglia di una di esse, “sta seduta una giovane mamma che allatta un bamboccio dalla faccia rotonda, dalle gambettine nude ed irrequiete, riccioli biondi. La mamma è triste, triste, ha il seno scoperto, un seno pallido, un po’ cascante, ha la testa chinata; non si scuote nemmeno al nostro passaggio rumoroso e polveroso, guarda con gli occhi fissi distante e pensa”.
Verso Contovello, l’animo dei gitanti è ormai cambiato. “Mi sentivo stanco, accaldato”, racconta Castelnovi. “Ero digiuno dalla sera precedente e le emozioni varie e forti provate nella mattinata mi avevano steso nell’animo un velo di tristezza e di melanconia, quasi di noia. Ma guarda un po’, pensavo tra me, pensavo di divertirmi tanto e invece…”. Se non che, passato l’ultimo paese, “ecco squarciarsi come uno scenario magico ed apparire d’improvviso un grande cielo azzurro e, più basso, un gran mare di un verde smeraldo; più in giù, come una bella odalisca stesa su un lussuoso divano, Trieste!”. I quattro militari si lasciano sfuggire un’ovazione di meraviglia; Castelnovi balza in piedi e si appoggia alle spalle di Barboni per sporgersi in avanti e vedere meglio: “Ho tutta l’anima negli occhi!”, scrive. “Quale panorama! Bello, bello, bello, bello!!!”.
L’auto svolta, proprio sotto la chiesa di Contovello e inizia a scendere immergendosi di fretta in quel panorama che sembra fiabesco, verso la città a cui Castelnovi dedicherà ancora pagine e pagine del suo scritto: una Trieste che dai caffè, dalle vetrine di librerie e boutique, dagli abiti femminili e dalle ampie strade eleganti inizia a far traspirare una voglia di vita, una speranza che all’epoca sembrava incontenibile.
Il testo integrale di Lodovico Castelnovi, Un volo a Trieste passando pel Carso, si trova sulla nuova serie della rivista “Civiltà Bresciana” (anno III, 2020, n. 1, pp. 181-210), ed è curato dal nipote Enrico Castelnovi. Ringraziamo la moglie Elisa Corniani per la graditissima segnalazione. Precedenti puntate di “Letture ghisleriane” sono state dedicate alla Liberazione del Collegio dai soldati tedeschi nel 1945, alle prime conseguenze degli episodi di rivolta in Collegio a fine Ottocento e al tentativo da parte degli Alunni in corso di trasformare il posto in Collegio in fruizione di una borsa di studio nel 1890, ai ricordi del concorso di ammissione nel 1947, ai valori storici del Collegio in un breve scritto di Pietro Ciapessoni, all’omonimo Collegio Ghislieri di Roma e a come i temari scolastici di fine Ottocento raccontavano gli anni trascorsi da Carlo Goldoni in Ghislieri.