Due giovani medici ghisleriani e il loro impegno nell’emergenza sanitaria

Fra i giovani medici chiamati a dare il proprio contributo in prima linea nella lotta al Covid-19, segnaliamo l’esperienza di due nostri Alunni: i dottori Michele Briganti e Giuseppe Pastore, impegnati presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Esine, il presidio ospedaliero più grande della Valcamonica, una delle zone più colpite dal contagio.

Il dott. Pastore, laureatosi la scorsa estate, è uno dei medici neoabilitati alla professione dal Decreto “Cura Italia” del 17 marzo. “Sono diventato Medico Chirurgo mentre ero seduto alla mia scrivania a studiare, con il sito dell’Ansa in aggiornamento automatico sul computer”, considera. La prova scritta dell’esame di abilitazione, prevista per fine febbraio, è stata dapprima rimandata e poi resa superflua dai fatti: “Personalmente credo che quest’emergenza abbia contribuito a svecchiare un passaggio che ritengo obsoleto, se non una vera e propria perdita di tempo, più che un’effettiva occasione di crescita per i candidati”. Non per questo al dott. Pastore mancava esperienza concreta: da anni impegnato come volontario sulle ambulanze del Comitato Pavia della Croce Rossa, aveva già avuto modo di mettersi all’opera per contrastare la pandemia. “Eppure così”, spiega, “la mia esperienza si fermava alla porta antincendio di un accesso secondario del padiglione di Malattie Infettive del Policlinico San Matteo, dove era stata istituita la postazione di triage per tutti i pazienti sospetti. La routine era: lasciare il paziente in consegna, disinfettare il vano sanitario e l’attrezzatura, svestirsi seguendo meticolosamente il protocollo e, a fine turno, rientrare a casa gettando tutto in lavatrice nella speranza di non essere diventato l’ennesimo vettore inconsapevole del virus”.

L’improvvisa possibilità di poter esercitare in ospedale ha cambiato radicalmente la sua prospettiva. “Era frustrante, per noi medici neolaureati, osservare impotenti per giorni le immagini dagli ospedali stracolmi. Da volontario della Croce Rossa, lo era forse ancor più il fatto che il destino dei “nostri” pazienti restasse ignoto, con le cifre del bollettino delle 18 della Protezione Civile che ogni giorno ci sembravano qualcosa di tangibile, di vicino a noi”.

L’arrivo del dott. Pastore alla ASST Valcamonica è dovuto anche alla call to action informale, condotta subito dopo il decreto “Cura Italia” presso medici neolaureati da parte di un Alunno di poco più anziano di lui, il dott. Michele Briganti, che dal 2018 è medico nel Pronto Soccorso degli ospedali di Esine e di Edolo.

“Naturalmente”, spiega, “il reparto maggiormente interessato da questi reclutamenti è stata la terapia intensiva, dove la necessità di personale di anestesia-rianimazione è stata considerevole a causa dell’aumento dei posti letto da gestire e della ciclica mancanza di personale a causa dei medici che nel frattempo contraevano il virus”. Col passare delle settimane, il dott. Briganti ha osservato il continuo adattamento delle strutture ospedaliere alle esigenze della pandemia. “Si è trattato di un mutamento costante”, racconta. “Al 20 febbraio era prevista soltanto una stanza ad hoc per la valutazione dei casi sospetti, al primo marzo quella stanza è diventata una rianimazione Covid e i pazienti venivano valutati negli altri ambulatori, cercando di mantenere la sala emergenze come zona pulita per le emergenze non legate al virus. In circa dieci giorni la struttura è diventata ufficialmente un ospedale-Covid e, entro il 20 marzo, contava già oltre duecento ricoveri di pazienti con Tac positiva per polmonite interstiziale virale”.

È stato fondamentale, per lui e per gli altri medici impegnati nel Pronto Soccorso, adeguare di giorno in giorno le misure così che il suo reparto, di fatto la porta d’accesso all’ospedale, avesse gli strumenti necessari per far fronte all’emergenza. Anche se gli ultimi numeri iniziano a essere incoraggianti, il dott. Briganti non sottovaluta i rischi: “Nello specifico, per noi del Pronto Soccorso, il rischio maggiore sta, paradossalmente, nell’automatizzazione del lavoro. È ciò che pesa di più, psicologicamente. Nel’era pre-Covid si potevano visitare anche quaranta pazienti al giorno con le sintomatologie più disparate, mentre durante l’emergenza tutti i pazienti avevano di fatto un quadro clinico molto simile, per i quali era possibile intuire in anticipo quali esami richiedere e quali accertamenti radiologici disporre. Ciò può costituire un fattore di rischio per noi medici, il cui compito è di non sottostimare nessun dettaglio”.

Il lavoro in prima linea durante l’emergenza ha messo il dott. Briganti, come tutti, di fronte ad aspetti inediti del rapporto col paziente. “Anzitutto colpisce lo smarrimento dei pazienti. Si tratta di una patologia subdola anche in casi gravi: il danno polmonare causato dal virus ha come caratteristica quella di non far sempre percepire soggettivamente al paziente il livello di, se mi passate il termine, disagio che il suo corpo sta provando. Ad esempio, persone con valori di saturazione d’ossigeno nel sangue a stento compatibili con la sopravvivenza erano comunque capaci di trasportarsi da soli dalla barella al lettino per eseguire la Tac. Una quantità rilevante di pazienti lamenta una generica stanchezza e non della mancanza di fiato; però, misurati col saturimetro, emergevano valori molto più preoccupanti di quanto lasciassero trasparire”.

Il vero cambiamento però, secondo il dott. Briganti, si colloca a livello della consapevolezza con cui viene esercitata la medicina. “Oltre alla cognizione del tempo alterata, alla continua ricerca di forze nervose, al rischio di burnout a cui tutti i medici sono sottoposti in quest’emergenza, credo che a metterci in crisi sia qualcosa di più sottile. La medicina odierna è una disciplina che sta trovando risposte a tutto; e i medici, a fine giornata, potevano andare a casa consapevoli della quantità di risposte che erano riusciti a fornire ai pazienti. Da fine febbraio, tuttavia, credo abbiamo iniziato a tornare a casa con più domande che risposte. Questo virus mette alla prova la nostra professione non sol perché manca tuttora una terapia e si sta solo iniziando a comprendere i meccanismi patologici molecolari: manca proprio la visione del caso clinico. È un virus talmente sfuggente, una situazione talmente imprevista, che è come se unendo dei puntini che dovrebbero formare – che so – la figura di un gatto si finisce per veder venire fuori una zebra, o altro”.

Il dott. Briganti conclude tuttavia con una nota serena, legata alla comunità del Ghislieri. “Nelle (rare) pause dai turni ho avuto modo di collegarmi rapidamente in videoconferenza con i miei compagni di Collegio sparsi per il mondo. Spesso si finisce a parlare di come i Paesi in cui vivono stanno affrontando l’emergenza, ma è comunque un modo di restare ancorati a una realtà tangibile che si spera possa tornare presto. Questo contatto per me è fondamentale. Un dettaglio spesso sottovalutato da tantissimi medici è che spesso ci preoccupiamo della salute altrui più della nostra. Grazie al contatto costante con i miei amici, sentendomi parte di una comunità, ho avuto modo di condividere reciproca preoccupazione; confrontandomi con quelli di loro che sono medici in altre città o nazioni, non solo ho avuto modo di aggiornarmi su situazioni comparabili ma anche di non barare con me stesso”.